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Eutanasia, tagli e altri rimedi: vita o morte delle persone disabili?

Eutanasia, tagli e altri rimedi: vita o morte delle persone disabili?

Autore: Eleonora Campus

Biotestamento. In questi giorni a seguito di un caso di eutanasia il dibattito è acceso, soprattutto rispetto alle persone con grave disabilità. Ognuno sembra avere delle certezze: chi urla al diritto alla vita ad ogni costo, chi invece guarda alla soluzione morte come l’unica possibile se la persona in caso di sofferenza arriva a tanto. La cosa importante da ricordare è che le scelte individuali vanno rispettate: ma questo non significa promuovere una soluzione o l’altra oltre ogni dubbio. I modelli unici, i pensieri dominanti non è detto che siano giusti, tantomeno liberi. Libertà è avere più opzioni, libertà è la diversità di ognuno anche nelle scelte. Anzi, ora siamo di fronte a una strumentalizzazione politico/mediatica maggiormente  volta  all’idealizzazione dell’eutanasia prospettata quasi come pensiero dominante ed unica soluzione possibile. Non solo: certi tipi di disabilità sono presentate come inevitabilmente da collegare a questa scelta.  Non occorre essere ferventi credenti per sollevare ragionevoli dubbi sul guardare in modo esclusivamente  laico al biotestamento. In un Paese dove per le persone con disabilità viene urlato a gran voce il diritto a morire dignitosamente, non viene altrettanto sostenuto il diritto  a vivere dignitosamente. Non tutte le persone con disabilità vogliono morire: eppure vengono spesso istigate al suicidio laddove non gli si riconoscono i diritti umani,  i relativi supporti ed una qualità della vita dignitosa. L’unica azione che viene promossa dalla politica è quella di tagli lineari alla spesa – relativa alle persone con disabilità – che comunque portano ad una eutanasia sociale. Quindi la persona con disabilità non è libera di scegliere in ogni caso

Dunque: vivere o morire? …..in realtà dare una risposta netta a questa domanda ci farebbe corrompere e comportare come chi ci assoggetta allo stillicidio politico/mediatico su questo argomento. Solo gli imbecilli non hanno mai dubbi. I principi morali e la giustizia sono qualcosa di complesso. Se credete di avere la risposta certa a certi argomenti, vi invito a leggere questo brano, non per cambiare opinione qualunque essa sia, ma semplicemente per guardare alle vostre certezze con occhi diversi e non cadere nella trappola del gioco politico/mediatico che la vorrebbe influenzare

IL TRAM FUORI CONTROLLO (M. Sandel)

“Prima versione della storia:

Immaginate di essere il conducente  di un tram lanciato a precipizio sulle rotaie a 90 chilometri all’ora: di fronte a voi vedete cinque  operai fermi sul binario, con il loro arnesi; provate a frenare ma non ci riuscite perché i freni non funzionano…..! Siete presi dalla disperazione, perché sapete che se il tram li travolgerà i cinque operai moriranno tutti….!  (immaginiamo che lo sappiate per certo).

Ma…..all’improvviso vi accorgete che alla vostra destra si dirama un binario laterale: anche li c’è un operaio al lavoro, ma solo uno….Vi rendete conto che potete deviare il tram, uccidendo quel singolo operaio ma risparmiando gli altri cinque.

Che cosa dovreste fare?…….

La maggioranza direbbe: “svolta!!!!!……Per quanto sia tragico uccidere una persona innocente, ucciderne cinque sarebbe ancora peggio”……

Sembra proprio che la cosa giusta da fare sia questa….. sacrificare una vita per salvarne cinque.

Seconda  versione della storia:

non siete più il conducente  del tram ma un osservatore, fermo su un cavalcavia affacciato sulla linea. Stavolta non c’è più il binario laterale. Sta arrivando un tram lanciato a tutta velocità sulle rotaie, e in fondo si trovano cinque operai; anche in questo caso i freni non funzionano e la vettura sta per travolgere i cinque uomini!

Vi sentite impotenti a evitare la catastrofe, ma all’improvviso scorgete, accanto a voi sul ponte, un uomo molto corpulento; potreste dargli una spinta e farlo cadere dal cavalcavia sul binario, incontro al tram che si sta avvicinando: lui morirebbe, ma i cinque operai si salverebbero (avete pensato di saltare giù voi stesso, ma vi rendete conto di essere troppo esile per riuscire a fermare la vettura)

Sarebbe giusto far precipitare l’omone sul binario? ………La maggioranza risponderebbe: “NO di certo. Spingerlo sotto il tram sarebbe tremendamente ingiusto”…Scaraventare uno giù da un ponte, condannandolo a morte certa, sarebbe una cosa spaventosa, anche se serve a salvare cinque vite innocenti….

Ma questa ipotesi solleva un problema morale:  perché il principio che sembra giusto nella prima versione della storia, sacrificare una vita per salvarne cinque, sembra ingiusto nel secondo caso e cioè sacrificare cinque vite per salvarne una?

Riflessioni, domande e ipotesi

Nel primo caso la nostra reazione suggerisce che i numeri contano qualcosa: se è vero che è meglio salvare cinque vite piuttosto che una sola svoltando sul binario laterale, allora perché nel secondo caso non dovremmo applicare questo principio, lanciando giù l’omone dal cavalcavia?…..

E’ vero che sembra crudele mandare un uomo verso la morte, anche per una buona causa, ma è forse meno crudele uccidere un uomo facendolo travolgere dal tram che stiamo guidando?…..

Forse la ragione per cui non è giusto scaraventare il passante di sotto è che così facendo ci si serve dell’uomo sul cavalcavia contro la sua volontà; lui, in fondo, non ha scelto di intromettersi, non faceva altro che starsene li……

Però si potrebbe dire lo stesso dell’uomo intento a lavorare sul binario laterale, che a sua volta non intendeva intromettersi, stava solo facendo il proprio lavoro, non si era offerto volontariamente per l’estremo sacrificio nell’eventualità di un tram lanciato nella corsa senza freni. A ciò si potrebbe ribattere che gli operai addetti alle linee si assumono di propria volontà rischi a cui non sono esposti i semplici passanti, ma diamo per scontato che la disponibilità a morire per salvare gli altri in una eventuale emergenza non faccia parte dei requisiti accettati al momento dell’assunzione, e che l’operaio non abbia dato alcun consenso a sacrificare la propria vita, così come non l’ha dato il passante sul cavalcavia.

Forse esitate a spingere l’uomo giù dal ponte solo per un istintivo ribrezzo, mentre dovreste superare la vostra titubanza; è vero che mandare alla morte un uomo usando le mani nude sembra di fatto più crudele che ottenere lo stesso effetto manovrando il volante di un tram, però fare quel che è giusto non è sempre una cosa facile. E per mettere alla prova questa idea ipotizziamo una terza versione della storia.

terza  versione della storia:

anche in questo caso non siete più il conducente  del tram ma un osservatore, fermo su un cavalcavia affacciato sulla linea.  Di nuovo non c’è più il binario laterale. Sta arrivando un tram lanciato a tutta velocità sulle rotaie, e in fondo si trovano cinque operai; anche in questo caso i freni non funzionano e la vettura sta per travolgere i cinque uomini!

Vi sentite impotenti a evitare la catastrofe, ma all’improvviso scorgete, accanto a voi sul ponte, un uomo molto corpulento; c’è però una differenza: potreste far precipitare l’omone che sta sul ponte al vostro fianco, ma senza bisogno di spingerlo; immaginatelo in piedi, su una botola che potreste scoperchiare solo girando una manopola: non c’è bisogno di nessuna spinta ma il risultato è lo stesso.

In questo modo il vostro gesto diventerebbe giusto? Oppure sarebbe comunque più ingiusto, sul piano morale, rispetto all’ipotesi in cui voi siete il conducente del tram e lo fate svoltare sul binario laterale? …..Non è facile spiegare la differenza morale fra i due casi: perché sembra giusto girare una manopola, mentre sembra ingiusto però buttare giù – a mani nude – l’uomo dal cavalcavia. Osservate però come ci sentiamo in obbligo di procedere argomentando finché non arriviamo a distinguerli l’uno dall’altro in modo convincente, e se non dovessimo riuscirci, sentiamo di dover modificare il nostro giudizio circa la cosa più giusta da fare nelle rispettive situazioni (….).

Certi dilemmi morali nascono dal contrasto fra vari principi etici; per esempio nella storia del tram entra in gioco un principio che ci impone di salvare quante più vite possiamo, mentre un altro principio afferma che uccidere un innocente non è giusto, neppure per una buona causa.

Trovandoci in una situazione in cui la salvezza di alcune vite dipende dall’uccisione di un innocente, dobbiamo affrontare un dilemma morale; dobbiamo cercare di capire quale sia, il principio che ha maggiore importanza o è più appropriato. In altri casi il dilemma morale sorge perché non sappiamo con sicurezza come si svolgeranno gli eventi.

L’esempio immaginario del tram è utile per analizzare il problema morale anche se ha il limite che spariscono le incertezze di chi fa le scelte. Gli attori agiscono con il campo sgombro dalle eventualità che ci sono nella vita reale. Soprattutto quando entra in gioco la sofferenza umana e temi come l’eutanasia che implicano una scelta individuale estrema.  

Però gli esempi ipotetici ci aiutano a isolare i principi etici che entrano in gioco e a valutarne la forza”. (M. Sandell)

In conclusione, mi auguro che si ascolti il grido delle persone con disabilità che chiedono di vivere dignitosamente, senza doversi trovare tutti vittime di un tram fuori controllo che in questi giorni, proprio mentre a livello politico/mediatico si condiziona l’opinione pubblica soprattutto pro eutanasia –  ha iniziato la sua corsa impazzita travolgendo tutti alla notizia di tagli enormi al fondo non autosufficienza e ai fondi sociali. E’ forse iniziata l’eutanasia sociale….?

Eleonora Campus

Roma 4 marzo 2017

 
 

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Anteprima ONU: giornata internazionale sulla disabiità 2016

Anteprima ONU: giornata internazionale sulla disabiità 2016

Autore: Eleonora Campus

Per la giornata mondiale dedicata alle persone con disabilità, che ricorrerà domani 3 dicembre 2016, regalo a tutti i lettori  in anteprima il discorso del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Con la speranza che non si trasformerà nella solita giornata della sfilata dei falsi miti e della retorica

MESSAGGIO SULLA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLE PERSONE CON DISABILITA’

03 DICEMBRE 2016

Nel mese di dicembre di dieci anni fa, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Si tratta di uno degli strumenti internazionali sui diritti umani più ampiamente ratificati, con 169 Stati Parti. La Convenzione ha stimolato notevoli progressi nell’ impegno e nell’azione per l’uguaglianza, l’inclusione e la responsabilizzazione di tutto il mondo, con la disabilità sempre più inclusa  nei diritti umani globali e nei programmi di sviluppo.

Quest’anno, gli Stati membri delle Nazioni hanno intrapreso l’attuazione dell’”Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030”, il nostro modello per la pace, la prosperità, la dignità e l’opportunità per tutti di vivere in  un pianeta salutare. Con i suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile interdipendenti, l’Agenda 2030 si basa sull’impegno a non  lasciare nessuno indietro. Il raggiungimento di questo richiede la piena inclusione e l’effettiva partecipazione delle persone con disabilità nella società e nello sviluppo.

Molto resta ancora da compiere prima che le persone con disabilità possano realizzare il loro pieno potenziale come membri uguali e come valore della società. Dobbiamo eliminare gli stereotipi e la discriminazione che perpetuano la loro esclusione e costruire un ambiente accessibile e inclusivo per tutti. Rispetto agli obiettivi dell’Agenda 2030,  per avere successo dobbiamo includere le persone con disabilità nell’attuazione, nel monitoraggio  e nell’utilizzare la convenzione come guida.

In questa Giornata internazionale delle persone con disabilità, esorto i governi nazionali e locali, le imprese e tutti gli attori della società a intensificare gli sforzi per porre fine alla discriminazione e rimuovere gli ostacoli ambientali e attitudinali che impediscono alle persone con disabilità di godere dei propri diritti civili, politici, economici, sociali e culturali. Cerchiamo di lavorare insieme per la piena ed uguale partecipazione delle persone con disabilità in un mondo inclusivo e sostenibile, che abbraccia l’umanità in tutta la sua diversità.

 

Fonte: https://www.un.org/development/desa/disabilities/international-day-of-persons-with-disabilities-3-december/idpd2016.html

La versione è tradotta in italiano dalla scrivente

Venerdì 2 dicembre 2016

Eleonora Campus

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Pubblicato da su 2 dicembre 2016 in Disabilità: Diritti

 

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DISABILITA’ E POLITICA: PRENDITI IL TUO SPAZIO E LA TUA “NORMALITA’”. COSA CI STANNO TOGLIENDO?

DISABILITA’ E POLITICA: PRENDITI IL TUO SPAZIO E LA TUA “NORMALITA’”. COSA CI STANNO TOGLIENDO?

Autore: Eleonora Campus

Il diritto per tutti a vivere lo  spazio pubblico e la propria città, oggi è generalmente  infranto. Non tutti hanno la percezione e la cognizione che vivere lo spazio pubblico, corrisponde ad un diritto irrinunciabile che è stato abilmente sottratto dalle Istituzioni e dai portatori di interessi in generale – soprattutto quelli di mercato – che poco hanno a che fare con i portatori di diritto. Pochi si sono accorti di quel che è accaduto forse proprio per la mancanza di consapevolezza da parte dei più.   Questa infatti,  è una violazione  accaduta  tra  l’indifferenza generale ed  ha riguardato tutti anche se con livelli di  intensità differenti rispetto alle conseguenze sulle persone. 

In particolare per le persone con disabilità, la negazione dello spazio pubblico – inteso sia come spazio di vita e di partecipazione che come spazio fisico – ha effetti ancora più forti poiché corrisponde a colpirle, escluderle e  segregarle sempre più. .Anche per queste ultime, si tratta di una situazione che deriva da un’indifferenza generale ma che – nel caso specifico –  è fisiologica a livello culturale.

Inoltre, vorrei ampliare la prospettiva collegando il disinteresse di ciascuno anche alla mancanza di “assimilazione” di questo diritto come tale e, quindi, rivendicabile ed esigibile. Occorre quindi spiegare da dove nasce il diritto a vivere lo spazio pubblico ma anche  i motivi per cui è stato violato e il perché dell’esistenza di altri spazi “artificiali” creati dall’uomo. .

Cosa è lo spazio pubblico e gli spazi artificiali della socialità assistita

Tradizionalmente lo spazio pubblico è uno “spazio aperto” ed è  legato alla partecipazione politica di “chiunque” lo desideri, dove si discutono questioni al di fuori di ruoli o interessi specifici. Lo spazio pubblico è sempre uno spazio aperto e, anche se ha comunque confini definiti da  regole,  queste devono essere condivise dalle persone di comune accordo, per cui ci si tratta da pari. Inoltre, lo spazio pubblico deve essere collegato con altri tipi di spazio ed deve essere radicato in un luogo fisico.

La sfera pubblica è quindi uno spazio di libertà e la  voce  dell’intera  collettività deve trovare ascolto nelle Istituzioni che la devono garantire attraverso leggi di diritto allo spazio pubblico e quindi, più ampiamente, leggi di diritto di ognuno  ad accedere,  decidere e vivere la propria città (ed in senso più ampio il proprio Paese). . 

Ma oggi le azioni dell’intera collettività non determinano  gli avvenimenti di interesse comune   perché determinati spazi di vita pubblica  – che dovrebbero essere  aperti e di libertà, presupporre la partecipazione politica , dare accesso e voce a  tutti indistintamente –  vengono separati dai luoghi pubblici fisici  (un esempio di luogo pubblico materiale è la piazza) e  sono o ceduti ai centri commerciali,  oppure   confusi con gli spazi  della socialità che sono  invece organizzati  per scopi ed interessi particolari. Di conseguenza le Istituzioni danno spazi per la socialità assistita per categorie di welfare che occupano aree e fabbricati e che  in termini di risorse sono dipendenti proprio dalle Istituzioni.

In generale,  la socialità assistita trasforma  lo spazio pubblico da luoghi di discorso spontaneo a cui tutti possono prendere parte,  a luoghi di organizzazione del bisogno sociale dove però non tutti hanno la possibilità di partecipare: l’accesso è solo quello di chi li  gestisce e degli interessati di quello specifico bisogno. Questi quindi sono spazi che  hanno quasi tutte le caratteristiche della sfera pubblica ma gli manca la “diversità” delle relazioni perché  si ricerca l’identità in un gruppo.

Solitamente, il senso di appartenenza, l’identità ricercata in un gruppo, ha un  valore positivo quando la base è il mantenimento delle diversità culturali dei popoli: e cioè, portare avanti le proprie tradizioni, la propria lingua ecc. Ma questo  non può prescindere l’apertura ad altre relazioni con soggetti diversi da quel gruppo. L’accezione negativa subentra quando chi gestisce questi spazi con scopi speculativi utilizza  volutamente e strategicamente la ricerca di questa identità  come uno strumento volto a chiudere le relazioni.  

La  negazione dello scambio e interazione con individui diversi poi, è dettata da  interessi economici  settoriali allo scopo  di indurre le persone a sentirsi appartenere completamente ad una data categoria a se stante, svantaggiata, separata, posta ai margini e dentro un recinto dal quale fatalmente non potranno uscire. L’autodeterminazione  ed integrazione di chi ha specifici bisogni, è di fatto sottratta dai gestori di  un sistema (sia fisicamente che moralmente)  a cui queste persone si dovranno affidare senza altra speranza di inclusione che non sia quella governata da questi soggetti.   Per le persone portatrici di diritto, in certi casi, ne deriverà allora sia una segregazione spaziale in luoghi dedicati ma anche una segregazione di natura psicologica che è altrettanto discriminatoria. Se infatti in un  ambiente fisico si separano le persone da rapporti diversi (con tutti gli altri) e si portano alla convinzione di avere una identità “da” e “dentro” una categoria, lo stesso avverrà anche fuori da quell’ambiente ( cioè al di fuori dello spazio specifico della socialità assistita).

Nel caso particolare  delle persone con disabilità  rispetto ai luoghi  della socialità assistita,  può accadere che questi  siano gestiti  in modo chiuso non solo a livello spaziale interno ma anche a livello spaziale esterno senza nulla rimettere all’autodeterminazione della persona interessata. In tal caso, le stesse modalità operative “al di dentro”  si riproducono anche “al di fuori” attraverso la definizione di attività  strutturate, eventi decisi e perimetrati, contatti con persone scelte e indicate a monte. Gli spazi fisici della socialità assistita inoltre, sono da sempre considerati gli habitat naturali delle persone con disabilità.  In questi ambienti a volte sono i “professionisti” e i “gestori” interessati che pongono ostacoli omogeneizzando per “condizione”  tutte le persone con disabilità ossia,  non considerandole una diversa dall’altra in termini di inclusione e ruolo attivo nella società (tipo di disabilità, potenzialità, capacità e competenze  differenti comunque tra una persona e l’altra…. ecc).

Oltre alla derivazione e perpetrazione di uno stereotipo, se si rientra nell’accezione di “persona disabile” quello che  si pone di fronte è un destino immutabile e  separato  poiché (sempre in termini di integrazione)  alcuni stabiliscono ciò che è adatto alla “condizione” propria di disabile in quanto tale.  La mancanza di politiche di inclusione e la presenza di barriere (mentali ed architettoniche)  poi, determinano un impatto ancor più negativo rispetto ad altri soggetti perché le difficoltà pratiche che derivano dalla specifica disabilità, corrispondono di fatto ad una becera detenzione.

Gli spazi riservati e il problema dell’idem sentire delle persone con disabilità: la normalità sottratta

Ogni spazio “riservato per…”  categorie crea separazione e pregiudizio ma ha anche il sapore di una concessione anziché quello di un’autorizzazione generale e diffusa di accesso e godimento. Poco conta il nome più o meno addolcito che viene dato a questi spazi riservati (piccoli o grandi che siano): è la particolarità dell’ammassamento per condizione e il controllo da parte di altri contro la volontà dei diretti interessati che crea piccoli o grandi carceri strutturati sul modello del panopticon (cfr, in:  Il carcere della disabilità: il nuovo panopticon!!!).

Il problema però risiede anche nell’idem sentire delle persone coinvolte e categorizzate in quanto, l’acquisire esclusivamente un certo  tipo di identità ed appartenenza non le porterà né a sentirsi normali (come chiunque) né a ricercare e rivendicare attivamente la normalità ove sottratta. La loro voce sarà quindi mediata dai gestori e la rivendicazione,  nella maggior parte dei casi, sarà sempre quella legata – se pur indispensabile per vivere – ad una “singola” e  specifica esigenza materiale.

Riappropriarsi della normalità e dello spazio come elemento comune e di diritto di ogni individuo (sia moralmente che nell’organizzazione dei luoghi)  potrebbe invece portare con se la naturale conseguenza di risolvere a monte molte rivendicazioni materiali negate da un sistema costruito su fondamenta escludenti per alcuni anziché ideato per tutti.

Ecco allora che se non si parte da una convinzione diffusa di una società costruita a misura d’uomo, generalmente inteso come essere umano,  i migliori alleati delle categorizzazioni possono diventare  proprio i diretti interessati di un dato bisogno, oltre che i separatisti di mestiere ( i cd. professionisti della disabilità) e la relativa cultura diffusa del “diverso” relegato in uno “spazio dedicato”. Non solo: i diritti umani son possono riguardare solo la “maggioranza” ma anche la “minoranza” fosse pure costituita da un singolo uomo  (cfr. in: La città della felicità. L’epurazione dell’imperfetto). 

I gruppi di decisione nello spazio pubblico: lobbies di esclusione  o facilitatori?

Un altro aspetto importante da analizzare è che  lo spazio pubblico è trasformato e sottratto anche dalle   organizzazioni spontanee di quartiere, nonché da gruppi di portatori di interesse,  che ambiscono ad entrare nell’ambito decisionale del governo cittadino nonché, spesso, anche nazionale (con facilitatori professionali).

Ma la sfera pubblica non è uno spazio di accesso e di decisione settoriale perché in essa  si devono  assumere posizioni su questioni di interesse pubblico ossia, di tutti. In generale quindi,  la società civile (socialità assistita,  organizzazioni spontanee di quartiere o gruppi) che si attiva spontaneamente , anziché perseguire scopi di partecipazione e azione volta al bene comune (cosiddetta sussidiarietà orizzontale art. 118 Costituzione), in realtà crea particolarismi e sottrae sfere di decisione e  di libertà comune.

Lo Stato infatti, demandando le istanze di tutti  cittadini all’iniziativa della  società civile stessa  – e cioè a soggetti privati che in concreto hanno interessi economici o ricercano un ruolo pubblico –  di fatto arretra , abbandona e cede la tutela di certi diritti che invece dovrebbe necessariamente garantire in una posizione “al di sopra delle parti”. Inoltre, anche  ove esistono norme specifiche, queste  restano su carta perché vengono ignorate e rimesse alle leggi di mercato, agli interessi politici ed economici che alimentano e mantengono in vita un sistema, oppure ad opere caritatevoli che fanno sempre parte di determinati circuiti. Oggi, la libertà e la tutela delle persone più deboli è mercificata sia materialmente che moralmente.

Tutto questo accade per convenienza attraverso il tacito  benestare da parte dei tanti  attori coinvolti sia Istituzionali (politiche di bilancio) che privati “selezionati” ad arte (lobbies nell’accezione negativa del termine se l’interesse predomina su tutti e tutto).

Ciò che dovrebbe essere imprescindibile è  una società costruita a misura di tutti gli individui.Gli spazi non possono essere suddivisi in settori ne in termini materiali,  ne in termini di relazione. Gli spazi si devono “fondere” così come le “relazioni”. In questo caso la “diversità” ha il significato positivo di mescolanza e scambio (non omologazione) e non quello negativo della separazione (strutturazione e omologazione) da supremazia di un dato gruppo di individui su un altro.

Il diritto alla vita e allo spazio pubblico corrisponde sia alla  libertà di tutti ad avere relazioni pubbliche aperte, integrate e diverse (non solo dentro una categoria) attraverso la partecipazione ma  anche ad avere l’accesso a luoghi  comuni ed  un ruolo attivo, come protagonisti e decisori con pari opportunità.

Sei passi per un cambiamento effettivo

Per mia deformazione caratteriale, ritengo che occorre partire – come primo passo – dalla consapevolezza che siamo in uno Stato di diritto e di tutela  per tutti e non in uno Stato appannaggio solo dei più forti o di chi ha specifici interessi. Lo Stato siamo noi tutti. 

Il secondo passo è quello di allargare il raggio della conoscenza dei diritti che sono anche quelli universali, non solo quelli materiali: la libertà di ognuno è da considerarsi tale nella misura e nel limite della condizione e della libertà del prossimo (libertà di vita e di accesso oltre a quella naturalmente intesa su determinati principi di rispetto di norme prescrittive).

Il terzo passo è tenere ben presente che ogni individuo è diverso dall’altro e la diversità è una ricchezza. Ognuno di noi non può dire di avere in comune qualcosa con qualcun altro per presa di posizione o condizione: nell’universo mondo le persone sono affini od opposte ma si riconoscono per intelligenza, sentire e perché no, anche “chimica”. Ma non si riconoscono certo per pre-determinazione da condizione (qualunque essa sia) o strutturazione di ambienti e rapporti. Una società omologata, fatta a misura solo della maggioranza, è piatta, senza stimoli ne confronto. Non potrà mai essere una società migliore, evolutiva: imploderà su se stessa, anzi “arretrerà”  inevitabilmente anche su poche cose acquisite.

Il quarto passo è considerare la “normalità” una accezione propria di ogni individuo: normalità è tutto. La condizione è un elemento oggettivo che nulla ha a che vedere con la natura di persona umana in quanto tale e come tutte le altre.

Il quinto passo è ricordarsi di essere “soggetti” attivi  e non “strumenti” passivi di qualcun altro.

Il sesto  passo è quello di riappropriarsi (i più) o conquistarsi (i meno) a gran voce il diritto alla vita e dello spazio pubblico sottratto.

La modalità sarà quella di prendere consapevolezza di quanto è accaduto e sta accadendo, non farsi ingannare dalle politiche di sussidiarietà (di fatto fallite) perché lo sgretolamento dello Stato centrale ha portato a nuove forme di prevaricazione anziché di tutela, chiedere la possibilità per ognuno di decidere ed essere protagonista del proprio destino (in ogni luogo) attraverso la partecipazione aperta e mista (e il voto di preferenza dato che lo Stato siamo noi), l’accesso, l’interazione diretta e la RIAPPROPRAZIONE di valori morali e diritti sottratti. Da qui potrà iniziare anche una nuova cultura di integrazione e società inclusiva poggiata su valori universali e condivisi.  Ma se manca alla base la consapevolezza sia di ciò che ci è stato sottratto, sia del guardare oltre il proprio specifico bisogno accettando per convincimento o sfinimento le vecchie e nuove forme di prevaricazione o segregazione, non si andrà molto lontano.  Non potrà esserci alcun cambiamento.

Forse anche in questo caso occorre considerare l’etica come elemento fondante e perso nel conformismo e nella natura umana poggiata di fatto (al di la delle parole di facciata)  su una logica di dominio gli uni su gli altri, anziché sulla condivisione e sul bene comune.

Scrivo queste righe con un piccolo brivido perché risalgono a dicembre 2012, le avevo lanciate su un social con una nota, ma che oggi risultano quanto mai attuali  in Paese che non guarda più all’etica ed al diritto,  tra sentenze non rispettate, tagli lineari che distruggono la vita di alcune persone (cfr. in: Dai tribunali alle manifestazioni: quei tagli illegittimi alla disabilità e le vite spezzate)  e tavoli di concertazione aperti solo ad alcuni gruppi di pressione (un insieme  di portatori di diritto ma spesso anche di interessi particolari) e non a “tutti” i portatori di diritto e cioè, ad ogni singolo soggetto fuori dai gruppi. Occorre arrivare fino all’”ultima” istanza dell’”ultimo” uomo perché dal godimento dei diritti umani nessuno può essere escluso. Ma forse, assurdamente e atrocemente, una certa politica ed una certa cultura sono al di fuori del tempo e dello spazio: sta a noi farle rientrare nella “storia” reale vissuta, combattuta  e finalmente superata.

31/10/2015

Eleonora Campus

 

 

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Dai tribunali alle manifestazioni: quei tagli illegittimi alla disabilità e le vite spezzate

Dai tribunali alle manifestazioni: quei tagli  illegittimi alla disabilità e le vite spezzate

Autore: Eleonora Campus

Il TAR con tre sentenze (sentt. n. 02454, n. 02458, n. 02459 del 2015)  ha accolto il ricorso delle persone con disabilità e famiglie,  ed ha riconosciuto che le somme date a titolo di risarcimento e/o di compensazione ai soggetti  in grave condizione di disabilità non devono essere considerate reddito. Il Governo, nonostante le sentenze fossero – a partire da febbraio 2015 –  immediatamente esecutive  per tutti gli interessati e in tutta Italia, le ha ignorate e, nel frattempo,  ne ha chiesto la sospensiva facendo ricorso al Consiglio di Stato il quale però,  non la ha concessa ed ha fissato l’udienza nel merito per il giorno 3 dicembre 2015 (data in cui oltretutto ricorre la giornata internazionale delle persone con disabilità).

Perciò, anche il Consiglio di Stato ha stabilito che  è stato illegittimo non applicare le tre sentenze e continua ad esserlo tutt’oggi dato che la situazione di fatto non è cambiata. Ciò a causa di  un sistema politico che cerca di far cassa su alcune categorie di persone, a dispetto di qualsiasi sentenza e violazione dei diritti umani.  

Ma un sistema per essere forte ha bisogno di complici: in questo caso i mass media.

Un primo aspetto da analizzare è che in diversi talk show volti al dibattito politico, si è strategicamente omesso di dire che il cd. Decreto sul “nuovo ISEE” non deve essere applicato perché è illegittimo data l’esistenza delle tre sentenze e la negazione al Governo della loro sospensione.

Un secondo aspetto che induce a onestà intellettuale ed etica, è che dall’inizio dell’azione giuridica collettiva delle persone con disabilità contro il nuovo ISEE, molti dei partecipanti sono morti.

Qualcuno su un social network,  si è chiesto se quelle persone fossero  decedute a causa dell’abbandono e della mancanza di sostegno tanto da  arrivare (forse) a configurare una  ipotesi di “assassinio” a causa della scellerata azione pubblica. Ma a quel dubbio è stato risposto, con sdegno, che nessuno avrebbe potuto essere accusato e sentirsi – tantomeno a livello personale e nell’espletamento del proprio dovere istituzionale – colpevole di omicidio.

Stessa “immunità” di coscienza dovrebbe aver pensato di averla anche la classe politica al Governo, al momento in cui  si son contati anche decessi di persone con disabilità durante manifestazioni per rivendicare sacrosanti diritti come la libertà di scelta, il rispetto e la dignità….

Inoltre, su  una presunta colpevolezza sorgerebbero altre  domande:

  1. come si può ipotizzare di stabilire un nesso tra l’azione della politica e quelle morti imputando l’evento alla mancanza di sostegno?
  2. come si  può ipotizzare di imputare i decessi alla fatica  durante una manifestazione di persone già in condizione grave,  e che per giunta scelgono “liberamente” di combattere anche al di la delle proprie forze…..?…..
  3. come si può ipotizzare che  una comunicazione mediatica, supponendo di parte,  influisca sia sul rafforzamento di un sistema governativo  prevaricatore che  sulle vite di tutti gli interessati….? ……….

Proviamo a rispondere a queste domande partendo da Amartya Sen, un economista indiano che “si è preso il disturbo di partecipare ai dibattiti di etica” (cit. A. Sen) e che, grazie a ciò,  con la sua concezione basata sull’etica sociale che considera la libertà individuale come impegno sociale. valore centrale e aspetto fondante  della società, ci fornisce delle risposte esaurienti anche rispetto alle eventuali “responsabilità” non assunte  (morali e materiali) da parte di chi dovrebbe agire per il bene comune di tutti i cittadini.

Amartya Sen versus Yoram Gutgeld: un economista “etico” contro un economista “economicista utilitarista”

La concezione di Amartya Sen, che vede la libertà individuale come valore centrale e aspetto indispensabile della società, si basa sull’etica sociale  i cui più grandi  problemi sono proprio di natura economica. Eppure, secondo Sen, questo tipo di libertà ha una importanza reale perché ha grandi conseguenze per una valutazione sia delle Istituzioni sociali che delle scelte politiche.

Quindi, bisogna partire dai problemi della vita quotidiana delle persone e dalle loro concrete esigenze. Invece, le scelte della politica a tutt’oggi, poggiano su un semplice calcolo di utilità economica (guadagno) che deve essere tratta proprio dalle persone come fossero merce di scambio. Ecco allora che la politica non guarda all’etica sociale e  assolda economisti  di impostazione esclusivamente “economicista”  – cioè con una idea totalitarista dell’economia e del modo di produrre ricchezza  – che diventa il perno centrale da cui partire per pontificare su ogni esigenza e attività umana. Una prospettiva  che vede  lo stato sociale come  un peso da limitare fino allo stremo  o, comunque, da dirottare ed usare come  uno strumento per alimentare il terzo settore. Ma lo Stato sociale è fatto di persone. Lo Stato siamo tutti noi, perciò alcuni, in particolare le persone con disablità, vengono considerate un peso nonché oggetti da usare per nutrire  il terzo settore. 

Nel tempo abbiamo assistito alla successione solo  di tecnici cd. economisti ma in realtà economicisti, che non guardano all’etica e alle persone perché vedono solo nei tagli lineari la soluzione al disavanzo pubblico.  Un esempio ad oggi,  è l’attuale commissario alla spending review Yoram Gutgeld, economista italiano, che ha rilasciato dichiarazioni preoccupanti rispetto alla soppressione  delle erogazioni in favore delle persone con disabilità (in particolare l’assegno di accompagnamento corrisposto  a favore di chi ha una disabilità non inferiore al 100%). Tali esternazioni – dalle quali emerge una assoluta disinformazione sulle persone con disabilità – sono apparse basate esclusivamente su motivazioni di ordine economico (che non  corrispondono a reali vantaggi in tal senso) e non curanti dell’impatto concreto che scelte scellerate potrebbero avere sulla qualità della vita  degli  individui coinvolti  (Vedere  in: “Governo: analisi personale delle dichiarazioni del commissario alla spending review”).

In quelle dichiarazioni non c’era traccia di etica in generale,  tanto meno di quella sociale e cioè il rispetto della qualità della vita e della libertà individuale (dunque, di scelta) delle persone interessate. Una assenza di etica ravvisabile  anche guardando alla leggerezza con cui si è inneggiato ai tagli (per tutti i cittadini) per i presunti sprechi nella sanità (Vedere in: “Gutgeld: tagli alla sanità, così risparmiamo 10 miliardi”).

La cosa ancora più inquietante è che tutto ciò accade in un Paese dove il disavanzo è principalmente causato dalla corruzione dilagante ed influisce in maniera massiccia sul PIL. I dati provengono anche dall’Unione Europea al 2014: per combattere tali fenomeni – ancor prima – nel 2012 è stata varata una riforma anticorruzione, ma evidentemente l’UE l’ha ritenuta insufficiente e nel quotidiano il problema resta (Vedere in: “Relazione della Commissione Europea sulla lotta alla corruzione”).

Eppure il Governo “economicista” non guarda ai costi della corruzione ed interviene negando la giusta protezione sociale ai cittadini, creando impoverimento , comprimendo la libertà individuale con  conseguente  esclusione sociale. Tutto questo si ripercuote ancor di più sulle categorie più svantaggiate.

A questa politica già possiamo iniziare ad introdurre e  contrapporre A. Sen (il nostro economista etico) che  in riferimento al reddito, parla proprio delle persone con disabilità evidenziando che anche a parità di reddito con un cd, normodotato, se questo lo si spende per sostenere i costi della disabilità (sostegno, esigenze di vita quotidiana volte all’indipendenza o cure) allora quella persona sarà povera perché deve destinare quella somma al suo svantaggio,

Ma c’è di più: in Italia attraverso la propaganda mediatica, si omette di dare la giusta informazione (come nel caso dei tre ricorsi al TAR VINTI dalle persone con disabilità e famiglie che rendono inapplicabile – perché illegittimo – il nuovo ISEE), si inneggia a sproposito ai “tagli lineari”  su  alcune categorie più vulnerabili prese di mira, si promettono  strabilianti risparmi e si fomenta l’opinione pubblica ad additare alcuni più di altri come colpevoli di sprechi. 

Malgrado ciò, se combatteremo anche con la memoria e la cultura l’arroganza di chi ritiene tutti ignoranti (pregiudizio vergognoso verso le persone con disabilità), scopriremo che è proprio Sen che – sia in teoria che in pratica  – abbatte ragionevolmente e nel rispetto dei diritti umani anche gli odierni economicisti (che parlano a sproposito di equità sociale per giustificare gli scempi) attraverso la concezione dell’etica sociale e della libertà individuale, quasi fosse fuori dal tempo e dello spazio. Quindi,  valida sempre e universalmente. Vediamo perché.

L’azione politica tardiva,  volta ai tagli e alla carità, è responsabile di eventuali morti?

Partiamo dalla prima e dalla seconda domanda che abbiamo precedentemente posto: come si può stabilire un nesso tra l’azione della politica e quelle morti (persone con disabilità) imputando l’evento alla mancanza di sostegno (vedi tagli lineari vuoi per i criteri dell’ISEE o per la negazione vera e propria di contributi  volti all’assistenza e all’indipendenza)?…..

Per rispondere  e riallacciarci a Amartya Sen,  dobbiamo porre un’altra questione: la scarsa disponibilità delle risorse, a cui la politica fa sempre riferimento in caso di abbattimento dei costi, può essere paragonata ad una “carestia” in termini di intensità?….. Questa domanda comporterebbe da parte del decisore pubblico una risposta affermativa,  tale da giustificare ogni sua azione volta ai tagli lineari. Ma anche assumendo  il paragone tagli/carestia come fattibile, è proprio vero che anche durante i periodi di “grande scarsezza” le risorse mancano effettivamente o è un altro il motivo che comporta l’impossibilità ad averle?……..

Ci risponde Amartya Sen prendendo a riferimento la carestia del Bengala del 1943 ed estendendo in seguito il paragone con le grandi carestie mondiali avvenute nel tempo. In quell’occasione (scrive Sen) morirono circa tre milioni di persone nonostante le privazioni riguardarono solo alcune categorie professionali mentre per il resto della popolazione le cose andavano in maniera quasi normale. Anzi, in quella ciecostanza la quantità di risorse in Bengala non era neanche particolarmente bassa. Eppure le autorità impostarono un piano pubblico adeguato tardivamente, affidando l’urgenza all’insufficiente carità privata, che si tradusse in un grave fallimento sociale.  Fallimento perché quelle morti (appura Sen) non furono di per se collegate alla carestia ma al fatto che quei tre milioni di persone (a differenza della maggior parte della popolazione) non avevano i mezzi  per procurarsi quelle risorse.  In altre parole, non avevano alcun modo (diritto negato) o canale preferenziale perché fuori da gruppi in grado di farsi riconoscere quei dirittiCosì, tutte quelle persone provate ed indebolite soccombero per mano di   una politica pubblica tardiva e data l’impossibilità di accedere al necessario sostegno per poter continuare a vivere. Non solo morirono. Furono uccisi (cit. ripresa da A. Sen).

Oggi molte  persone con disabilità già non possono accedere al welfare (quindi non hanno alcun mezzo per accedere allo Stato sociale) a causa delle irrisorie soglie ISEE e, ancor di più, con l’illegittimo Decreto n. 159/2013 che rende  reddito disponibile (ai fini dell’accesso) somme destinate ad esigenze vitali in assenza delle quali soccomberebbero al peso della loro stessa condizione di disabilità. Anche in questo caso le risorse non sono tanto scarse se pensiamo alle rendite di posizione della classe politica, alle tasse che tutti noi paghiamo e alla famosa corruzione dilagante che non si vuole perseguire.   Le persone con disabilità non hanno altro modo – a fronte di diritti negati – per procurarsi il necessario sostegno,  se non quello di difendere con forza i propri diritti umani fondamentali  che il Governo vuole togliergli tra promesse non mantenute o attraverso la non applicazione di sentenze cogenti ed immediate. Inoltre,  durante questa “resistenza” al Governo indifferente e aggressore,   parecchi sono deceduti, schiacciati proprio dal peso di vivere e dalla negazione dei più elementari diritti umani.

Domanda: potrebbe dunque ravvisarsi in questo caso una responsabilità grave di una politica pubblica,  addirittura omissiva, volta a temporeggiare illegittimamente, tale da impedire il dritto ad  accedere  alle risorse e,  di conseguenza,  da costituire il nesso causale che ha favorito quelle morti ….?…. .Altra domanda: “non solo morirono. Furono uccisi…..? (come direbbe A. Sen).

L’azione politica che impedisce la libertà individuale, assoggetta al rischio di morte?

Torniamo di nuovo alla prima e alla seconda  domanda:  come si può ipotizzare di stabilire un nesso tra l’azione della politica e quelle morti per  mancanza di sostegno così come imputarle alla fatica  durante una manifestazione di persone già in condizione grave, che per “scelgono liberamente” di combattere anche al di la delle proprie forze…..?…..

Per continuare a rispondere, ed argomentare ulteriormente le riflessioni del presente scritto,  poniamoci un’altra questione: data la mancanza generale di sostegno economico, le persone con disabilità  avevano davvero la possibilità di scegliere liberamente come agire fino, a volte, ad estreme conseguenze? O questa libertà è solo apparente perché in realtà è stata sottratta,  tanto da  costituire un ulteriore nesso causale (oltre alla mancanza di mezzi per accedere più che alla scarsità delle risorse)  dell’evento morte…?… Di quale libertà parliamo ?….

Torniamo a Amartya Sen e alla carestia del Bengala del 1943: nel Bangladesh scoppiarono violenze etniche tra indù e musulmani. Si trattava di un territorio con tessuto misto e le uccisioni avvenivano da entrambe le fazioni. Un lavoratore giornaliero musulmano venne accoltellato alla schiena perché era andato a consegnare di legna nella parte di territorio indù. Soccorso e trasportato in ospedale dal padre di A. Sen (all’epoca ancora bambino), l’uomo raccontò che la sua famiglia aveva tentato di dissuaderlo dall’uscire per via dei pericoli, ma andò ugualmente perché non avevano nulla da mangiare. Morì in seguito in ospedale.

Questo ha portato  Amartya Sen a ripensare alla causa principale per cui quell’uomo pagò quel prezzo così alto  e ne ha dedotto che la mancanza di “libertà economica” lo costrinse a correre il rischio.

A questo punto qualcuno si chiederà: ma cosa c’entra tutto ciò con l’atto materiale (in quel caso) di chi ha accoltellato?….

Inoltre, la libertà economica può essere messa in relazione  con la libertà individuale,  in senso ampio,  quale bene che se sottratto può portare a eventi estremi tanto da, nel nostro caso, accostare l’esempio alle odierne vicende delle persone con disabilità?

Premettiamo un punto: non c’è libertà individuale se non c’è libertà economica. La mancanza di possesso di titoli (non avere il diritto) per accedere alle risorse o lo stare fuori da gruppi in grado di farseli riconoscere (laddove non collusi con chi li nega ovviamente),  “costringe” le persone a determinate “scelte” . Perciò  è improprio definirle  “scelte” se derivano da costrizione. Oggi le persone con disabilità non hanno libertà economica dunque, non hanno libertà individuale  perché leggi scellerate tentano di comprimere sempre  di più questa mancanza di libertà tanto da assoggettare “tutti” gli interessati  sia al rischio di morire sia in assenza (in se e per se)  di sostegno,  sia per la circostanza di dover spendere energie già ridotte, per difendere se stessi e  quel poco che gli spetta.

Per capire meglio questo aspetto dobbiamo chiarire ancor di più cosa è la “libertà individuale” in senso ampio.

L’azione politica: quale libertà rubata e quale responsabilità?

Esistono due tipi di libertà: la “libertà di” e la “libertà da”.

La “libertà di” riguarda ciò che, tenuto conto di tutto, una persona può o meno conseguire nella vita. In questo caso però l’interesse non è se l’incapacità da parte di una persona di raggiungere un certo obiettivo sia dovuta alle “restrizioni imposte da altri individui o dal governo”.  La “libertà da” invece, riguarda l’assenza di limiti che una persona può imporre a un’altra, o che lo Stato e altre  Istituzioni  possono imporre agli individui. Queste due libertà nel tempo sono state separate, dando importanza quasi esclusiva alla “libertà da” cioè al non imporre limitazioni (nel nostro caso da parte del governo). 

Amartya Sen invece ricorda che personaggi come Aristotele, Gandhi e Roosvelt hanno mostrato molto più interesse verso la “libertà di”.  Secondo Sen, se riteniamo importante che una persona sia “libera di scegliere” e quindi di essere messa in grado di condurre la vita che preferisce, allora dobbiamo pretendere la “libertà di”. Immagino anche che Roosvelt ne fosse ancora più consapevole essendo stato uno dei più grandi Presidenti americani, ma anche persona con disabilità che nascose di avere la  poliomielite e di fare uso della carrozzina altrimenti l’opinione pubblica l’avrebbe considerato troppo debole per guidare il mondo libero (paura fondatissima ed un pregiudizio che permane).

Allo stesso tempo, anche la “libertà da” va pretesa perché è negativo per una società rendere incapaci le persone con disabilità di accedere ai luoghi pubblici a causa di ostacoli posti da altre persone. Peggio ancora: l’ingerenza di altri nella vita di una  persona (nel nostro caso quella delle Istituzioni), può avere conseguenze intollerabili oltre alla mancanza di “libertà di conseguire o meno determinati obiettivi” che ne può derivare: una di queste è, appunto, l’evento morte.  

Perciò Sen ritiene che un’adeguata concezione della libertà deve intrecciare – dal punto di vista etico – sia quella “di” che quella “da”.  Infatti, nel caso del lavoratore giornaliero musulmano, lui avrebbe “scelto di continuare  a vivere” (libertà di condurre la vita che avrebbe preferito) ma la sua “scelta” e la sua conseguente  morte lo privarono  di questa “fondamentale libertà di”. Tuttavia,  la cosa più terribile è che questa privazione è stata determinata dall’atto offensivo di un assalitore, che gli ha imposto  un limite sottraendogli  la “libertà da”, non dalla natura rispetto all’età o da malattia.  Non solo morì: fu ucciso (cit. A. Sen). Se invece l’uomo non avesse accettato il lavoro retribuito, allora, di nuovo, avrebbe perso la sua “libertà da” e cioè quella di accettare un lavoro a causa di ingerenze (in quel caso con precise  intenzioni omicide) da parte di altri. Inoltre, fu spinto ad agire in un certo modo prima di tutto dalla sua povertà e dalla conseguente mancanza di vivere la vita che avrebbe preferito (libertà di). Anche se povertà e mancanza di “libertà di fare” non sono sempre collegabili alla mancanza di “libertà da interferenze”, in quel caso l’atto omicida fu dovuto ad una estrema violazione da parte di altri che lo hanno privato anche della sua “libertà da ingerenze esterne”.

Qualche domanda:  rispetto alle persone con disabilità decedute, senza sostegno e/o durante delle manifestazioni, queste avrebbero scelto di continuare a vivere la vita che avrebbero preferito, ma le azioni pubbliche vessatorie e  le loro morti potrebbero averle  private della loro “libertà di” tale scelta?….. 

L’atto offensivo della morte, potrebbe ravvisarsi nell’operato di uno Stato “assalitore” (anche se non con intenzione omicida ma probabilmente con  colpa cosciente) che ha agito con ingerenza – illegittima come da sentenze o negazione dei diritti umani alla libertà di scelta – sottraendo a tutti anche  la “libertà da” tale interferenza …? …..

Quelle morti  son state dovute a fattori naturali come l’età, la malattia, oppure sono imputabili alla fatica di vivere e,  di conseguenza, alla spinta a  combattere (oltre le proprie forze) per gli inviolabili e vitali diritti nonché bisogni primari….? …

Non solo morìrono: furono  uccisi…?….. (come direbbe A. Sen).

Il ruolo dei mass media: prevenirne la scarsezza delle risorse si può? Ci sono o non ci sono?

Apriamo ad un altro punto: se l’impegno sociale (secondo Sen) nei confronti della libertà individuale deve guardare all’intrecciarsi di entrambe le libertà rendendola effettiva, come lo si può fare in concreto? E la scarsezza di risorse può al limite essere prevenuta….?

Per rispondere dobbiamo andare alla terza domanda che abbiamo posto all’inizio di questo scritto: una comunicazione mediatica, ipotizzata  di parte,  può influire sia sul rafforzamento di un  sistema governativo  prevaricatore che  sulle vite di tutti gli interessati….? ……….

Replichiamo sempre con A. Sen, il quale ritiene che sistematici interventi pubblici consentono di prevenire le carestie ma le misure di prevenzione non possono  essere efficaci se non vengono applicate appena si presenta la minaccia di una potenziale scarsezza di risorse. La natura pluralistica e democratica di un Paese è la “minaccia” che mantiene i governi attenti e permette di prevenire le carestie. Il proseguire di politiche di governo disastrose, è  reso possibile dalla natura non democratica del sistema politico di un Paese. Diverse e molteplici  libertà, come quella di criticare, di pubblicare, di votare, sono collegate come causa da cui derivano  altri tipi di libertà come quelle di sfuggire alla fame e alla morte. Nella storia difficilmente (secondo i suoi studi) si è trovato un caso in cui si sia verificata una carestia mondiale  in un Paese con una stampa libera e un’opposizione attiva entro delle Istituzioni democratiche. Al contrario, quando un governo non si sente “minacciato” ne da un’opposizione, ne dall’azione dei cittadini e nessun giornale quotidiano (ai nostri giorni anche talk show di natura politica) avanza critiche alle politiche pubbliche (nel nostro caso blande o assenti rispetto agli sprechi veri di altra natura che però coinvolgono proprio le Istituzioni Pubbliche stesse), allora si incorrerà in veri e propri abusi nei confronti dei più deboli.

La “libertà da” (dunque la libertà da ingerenze) della stampa e dei partiti di opposizione di criticare, scrivere e organizzare la protesta è efficace e fondamentale nella salvaguardia della libera scelta alla qualità della vita da condurre (libertà di) della popolazione più vulnerabile.

In Italia la libertà di voto è una grossolana facciata (candidati imposti dai partiti e non scelti direttamente  dai cittadini nonché rimescolamenti di personaggi e gruppi politici), l’informazione  ha sempre qualche “padrone” con un determinato stampo politico cosi che,  il criticare e lo scrivere subisce il condizionamento  delle varie appartenenze (apparte qualche rara eccezione).

Nel caso delle persone con disabilità il Governo non può certamente essersi sentito allertato e “intimorito” perché ne stampa ne talk show fanno alcun riferimento che il Decreto sul cd. nuovo ISEE è illegittimo perché sono stati vinti dei gradi di giudizio da parte delle persone interessate: dunque è inapplicabile (nella parte in cui le erogazioni a loro favore costruirebbero reddito disponibile)  ma non se ne tiene conto e nessuno ne da notizia (ne giornali, ne trasmissioni televisive).  La rete ed i social cosi come i blog personali,  sono l’unico strumento a disposizione per dire la verità.

Gli stessi mass media che quando accade un evento tragico, imputano l’accaduto a puro pietismo da cd. “disabile subnormale” senza guardare al fatto che si tratta di  persone che hanno il coraggio di rivendicare certe  esigenze senza compromessi e mettendo in gioco il bene più prezioso: la vita.  

Da un economista indiano alla Convenzione ONU delle persone con disabilità

Il presente scritto deve essere letto ricordando che quelle che ci vengono proposte dai governi nel tempo, non sono verità assolute ma, anzi, spesso frutto di interessi o ignoranza vera o finta tale per continuare ad operare in modo discutibile.

La prova che non hanno lo scettro della sapienza ce la forniscono alternative e studi concreti fatti da personaggi come Amartya Sen (e dai suoi successori) la cui concezione della qualità della vita  e delle “capacitazioni” è alla base della Convenzione ONU delle persone con disabilità. Quindi non è un’astrazione: è realtà. Non accontentiamoci di ciò che ci fanno credere. Oltretutto A. Sen aveva presentato la sua etica sociale anche in Italia nel 1999, ma la memoria forse è volutamente corta.

Leggendo ognuno rifletterà e trarrà le sue conclusioni, anche rispetto ad eventuali responsabilità: per colpa di chi….?……..c’è davvero una immunità da responsabilità da parte delle Istituzioni?

Ciò che va restituito alle persone con disabilità è il diritto a vivere secondo libertà di scelta, dignità umana e rispetto. Riprendiamoci la libertà, la possibilità di vivere, desiderare e decidere quel che è meglio per noi come può fare chi è definito normodotato.  Rendiamo il 3 dicembre (giornata internazionale delle persone con disabilità) la ricorrenza della nostra liberazione. Allarghiamo l’orizzonte visivo anche al di la dei nostri confini perché abbiamo molto da imparare anche da un piccolo grande economista indiano.

Non solo morirono. Furono uccisi…..: basta vittime potenziali e reali. Non si può continuare con una politica volta all’eutanasia sociale ma bisogna proseguire con una politica volta all’etica sociale, che è possibile, come dimostrano gli economisti etici

16/10/15

 Eleonora Campus

 

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Mettete le ali: il diritto e il danno alla libertà è realtà

Mettete le ali: il diritto e il danno alla libertà è realtà

Autore: Eleonora Campus

La sentenza 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo ha catturato la mia attenzione. Si tratta di un giudizio importante perché per la prima volta è stato riconosciuto che in caso di tagli alle prestazioni di assistenza ad  una persona con disabilità,  gli Enti devono  risarcirla per   “danno esistenziale” prima ancora che per  “danno biologico” cioè quello che lede la sfera psico-fisica della persona.  Ma allora cosa è questo danno esistenziale e perché è tanto importante soprattutto per le persone con disabilità?

1.1. Le persone con disabilità e il diritto all’esistenza: le capacità, le attività e la personalità

Il danno esistenziale rientra nei diritti della persona umana tutelati  dalla Costituzione ed  è la lesione del diritto al libero svolgimento e alla possibilità  di ampliare  ogni attività umana. Più precisamente si dice che è il diritto al “dispiegamento” di ogni attività umana. Il termine “dispiegarsi”  mi piace molto di più:   mi fa pensare a un gabbiano che “allarga” le ali e che vola libero.   Inoltre, questo tipo di danno è anche la lesione alla libera espressione  della personalità di ognuno.

Riconoscere il diritto all’assistenza  come un  diritto che se violato rientra nel  risarcimento del danno (non patrimoniale)  di tipo esistenziale (sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo), significa stabilire che questo danno incide su valori costituzionali strettamente legati alla libertà individuale di “fare” (dispiegamento delle proprie attività)  e di “essere” (espressione della propria personalità)Significa, perciò,  rendere concreto un cambio di modello che sposta   l’attenzione proprio sulla libertà individuale come valore sociale e fondamento della qualità della vita di ognuno che secondo le proprie capacità (intrinseche e diverse in ogni persona) sceglie come preferisce vivere. E dato che tutto questo è la base  della Convenzione Onu delle persone con disabilità (ratificata in Italia con legge 18 del 2009), attraverso le Corti  si può iniziare a rendere effettivo il “diritto alla libertà individuale” e a ripensare in  concreto a quelli che devono essere i diritti umani fondamentali di ogni persona.

Si può senza dubbio  premettere che rispetto alle persone con disabilità, almeno in parte, la  sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo  ci parla di vita, di libertà, di diritto all’assistenza, e di capacità (compresa quella di  lavorare).

Vediamone allora i punti di forza ed  i molti spunti che vi ho intravisto oltre all’aspetto principale ed  importante del risarcimento per danno all’esistenza che, in altre parole, consiste in un vero e proprio sconvolgimento degli equilibri della vita di una persona. Ma osserviamone   anche i punti di debolezza che comunque  rimandano a sentenze successive (vedi sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013 del Tribunale Civile di Ascoli Piceno; vedi sentt. n.  154-156-157 del 2015 TAR Piemonte) ove appaiono affrontati e in parte meglio chiariti se pur con contraddizioni e punti non risolti come  ho evidenziato negli articoli “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia” e cfr. in   “Assistenza domiciliare professionale: un diritto garantito a metà e non sempre”.  Pertanto, è significativo riprendere questa sentenza ad oggi e rianalizzarla guardando indietro ed in avanti.

1.2 Il caso

Nell’ottobre 2011, un uomo affetto da tetraplegia ha impugnato un provvedimento dell’Assessorato siciliano alla Salute attraverso il quale si stabilivano sia i criteri per l’assegnazione dei contributi per l’assistenza alle persone con disabilità grave, sia  i provvedimenti temporanei a riguardo poiché, tutti questi atti, lo escludevano dalla possibilità di ricevere qualunque tipo di erogazione.  L’uomo non aveva  ricevuto né comunicazioni, né altri contributi da parte della Pubblica Amministrazione (PA). Perciò si era rivolto al Tribunale, che – con sentenza parziale n. 1881 del 27.10.2011 –  accoglieva  l’illegittimità del comportamento della Pubblica Amministrazione la quale, non provvedendo a pronunciarsi rispetto alle richieste dell’interessato (cd. silenzio inadempimento della PA),  era venuta meno ad un preciso obbligo di legge. 

Di conseguenza, la Corte  aveva ordinato all’amministrazione regionale e al comune di provvedere a concludere entro venti giorni il procedimento di determinazione ed erogazione di quanto dovuto al ricorrente. Secondo il Tribunale l’enorme ritardo derivato dal comportamento degli Enti Locali nell’erogazione del contributo legato all’assistenza individuale dell’uomo,  è un danno (non patrimoniale)  biologico (cioè alla salute)  che  questi devono  risarcire  (ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 104 del 2010).  

Ma, ancor più importante, è che  la  sezione TAR  di Palermo ha anche  disposto che  se alle persone con  grave disabilità gli enti locali tagliano la prestazione dell’assistenza domiciliare che è un diritto minimo indispensabile e importante,  ci si trova di fronte a una vera e propria  «riduzione indebita» (quindi un abuso).  e il risarcimento lo devono dare  anche per aver cagionato  «un danno (non patrimoniale) esistenziale» che, come già detto precedentemente, è la lesione della libertà individuale di “fare” e di “essere” . Dunque,  si tratta di un danno che incide su diritti fondamentali inviolabili che vanno “oltre” e sono “diversi” dalla sfera della salute tradizionalmente intesa. Vediamo di seguito quali sono questi diritti, le norme a loro tutela e le motivazioni del TAR.

1.3 L’importanza del risarcimento per danno esistenziale

L’obbligatorietà per la Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno esistenziale a causa del suo “comportamento inadempiente”,  costituisce un precedente importante perché  (nonostante la somma ammonti a soli 10mila euro, dei quali  5mila a carico della Regione e 5mila a carico del Comune palermitano) la Corte ha  riconosciuto che questo ha comportato  l’incidenza sui “diritti costituzionali inviolabili della persona”  (in questo caso con disabilità) come anche, continua la Corte,  su quelli “della salute e della dignità umana del disabile” (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).  

Nello specifico dal grave quadro clinico dell’uomo,  attestato da una  certificazione medica prodotta dallo stesso,  emerge chiaramente che la drastica riduzione dell’assistenza domiciliare da un lato ha inciso sul suo stato di salute  cagionandogli  un danno psico-fisico (con il manifestarsi di depressione e lesioni da decubito). Dunque,  ci si trova di fronte al cd. “danno biologico” che è  la lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità fisica  e psichica della persona e  che comporta  anche una compromissione delle attività vitali del soggetto. Dall’altro lato, però,  tale certificazione mostra che questo tipo di danno – che pure c’è stato – è minimo rispetto alla maggiore compromissione sia dell’aspetto relazionale/esistenziale della vita del ricorrente che  di quello  delle sue “normali attività realizzatrici” e cioè, di tutte quelle attività pratiche (del fare) e  di relazione con gli altri (possibilità di essere se stessi esprimendo la propria personalità nonché socialità) in cui  ogni persona nella vita quotidiana  realizza se stessa. In altre parole, si tratta di tutte quelle normali attività giornaliere che la persona vorrebbe fare ma che alcuni (come le persone con disabilità e in questo caso il ricorrente)  a causa della propria  condizione  non ce la fanno a fare. Riducendo indebitamente e drasticamente le prestazioni di assistenza dunque, la Pubblica Amministrazione ha compromesso e di fatto negato  all’uomo la possibilità di compiere le proprie “attività realizzatrici” nella sfera della propria esistenza. Ne è conseguita per l’interessato  una “sofferenza morale” “inevitabilmente collegata a tutto questo” (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).

Per tale motivo la Corte ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del  cd. “danno esistenziale” in misura anche maggiore di quello “biologico” che invece è collegato al tradizionale concetto del “diritto alla salute” sotto l’aspetto psico-fisico se pur prevede che ci debba essere anche una compromissione “attività vitali” perché sussista.

Ma a  ben vedere anche lo sconvolgimento della vita quotidiana di una persona e la collegata sofferenza morale, da cui deriva il danno esistenziale, non è forse qualcosa che coinvolge comunque la salute di una persona intesa in senso più ampio….? ……Si può allora affermare che la libertà individuale di  “fare” e di “essere”  coinvolge la persona in un tutt’uno …?…La riposta è si: occorre uscire dall’ottica ingannevole della scissione di ogni aspetto corporale, psichico, esistenziale e relazionale della persona. Anche l’emarginazione condiziona lo stato di salute.  Questa  separazione non è altro che uno  strumento (i classici tagli lineari alle prestazioni rivolte alle persone con disabilità) per negare  il diritto alla libertà individuale – e dunque il diritto alla libera scelta – delle persone rispetto a tutto ciò riguarda la preferenza di come, dove e con chi  vivere la propria vita.

1.4. L’importanza “fondamentale” delle prestazioni assistenziali e l’inversione dell’obbligo di provare l’abuso

La Corte, come già detto in precedenza,  ha stabilito la  compromissione sia della sfera psico-fisica del ricorrente che di quella di tutte le attività che lo stesso avrebbe voluto  svolgere nella sua vita quotidiana. Tale conclusione è avvenuta non solo per “presunzione” ma anche sulla base di una certificazione medica prodotta dall’interessato proprio  per  «l’importanza fondamentale» delle prestazioni assistenziali  volte a  garantire «la salute psichica» dell’uomo e «il mantenimento di un livello accettabile di integrazione sociale»  (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).

Il riconoscimento anche del danno esistenziale  quindi,  è importante perché dimostra che quando si parla di assistenza si toccano una moltitudine di aspetti della vita della persona. Non si tratta “solo” di un  “diritto all’assistenza”in se e per se ma si stabilisce che  la mancanza di  finanziamenti pubblici destinati a  garantire la “vita” e “l’indipendenza”  di una persona con disabilità grave, incide “sui diritti costituzionali inviolabili della persona”, compresa la sua dignità,  perché volti ad  un servizio pubblico essenziale  per la sua esistenza in senso ampio.

Inoltre,  la Corte sulla base degli elementi acquisiti agli atti  – come anticipato sia “avvalendosi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni” ma anche sui documenti concreti come la certificazione medica , le testimonianze ecc –   ha “motivatamente ritenuto” non necessario disporre l’accertamento medico legale a fondamento della sua decisione   (sulla base della Cassazione Civile, SSUU, 11.11.2008 n. 26972 e della  Cass. Civ., Sez. III, 20.9.2010, n. 19851)     per la quantificazione del danno biologico comprensivo anche del danno esistenziale  e dunque, di quello morale e da lesione  delle “attività realizzatrici”della persona. 

Se è indubbiamente importante che la facoltà del Giudice di non ricorrere al medico legale significa non gravare il ricorrente di un peso rispetto al dover ulteriormente provare la sua posizione, vorrei comunque  fare una riflessione. L’uomo con disabilità nell’intentare il giudizio,  ha dovuto seguire  il principio giuridico generale secondo il quale chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire le prove per l’esistenza del fatto stesso. Il ricorrente ha perciò dovuto sopportare a monte  il peso della prova  producendo una dettagliata certificazione medica ospedaliera sia sul  suo stato di salute (psico-fisico) nonché sui  suoi equilibri esistenziali. In aggiunta, l’interessato ha  anche fornito testimonianze a supporto di quanto documentato e di quanto dichiarato.  A seguito di tutto quanto acquisito, come già accennato, il Giudice ha preso la sua decisione poggiandosi sul principio della “presunzione relativa” di responsabilità (in questo caso della Pubblica Amministrazione)  –  rispetto al danno cagionato all’uomo –  attraverso il quale si inverte l’onere della prova.  Questo vuol dire che la persona con disabilità non ha dovuto provare ulteriormente il fondamento della sua pretesa (infatti come già detto  il Tribunale ha ritenuto fosse superfluo  un accertamento medico legale in tal senso) e che si “inverte” la posizione probatoria dando alla controparte (in questo caso l’Ente Pubblico)  la possibilità  di “provare il  contrario”  (art. 2728 c.c.) e cioè, di non aver commesso omissioni  e cagionato il danno biologico ed esistenziale.  In tal modo si è vuole  raggiungere una condizione di  “equilibrio” tra le parti in contraddittorio.

Innanzitutto, quando si parla di casi che coinvolgono così ampiamente tutti gli aspetti della vita di una persona,  l’”equilibrio” tra le parti sembra difficile da accettare se la controparte è una Pubblica Amministrazione dominante che attraverso un comportamento omissivo ha sconvolto la vita di una persona bisognosa di supporto. Inoltre, tutte le prove e le testimonianze che l’uomo ha dovuto fornire, sono ancora una volta la dimostrazione che le persone con disabilità sono continuamente e vessatoriamente sottoposte al peso della prova  per tutto l’arco della vita e (come se fosse la prima volta o come se ci si trovasse di fronte al cd. falso invalido che tanto piace menzionare all’informazione di propaganda) attraverso accertamenti e riaccertamenti.  Quindi, il ricorrente (a mio parere) ha dovuto dimostrare “ancora una volta” qualcosa che invece avrebbe dovuto essere noto, anche perché le prestazioni sono erogate da quella Pubblica Amministrazione che dovrebbe avere la sua storia clinica e personale.

Tornando agli elementi acquisiti comunque, la Corte ha con ogni evidenza potuto appurare sia la sussistenza di un danno che del nesso di causalità tra esso e la condotta illegittima (cioè il ritardo) della PA.

1.5 L’esistenza del “non autosufficiente”: alcuni passaggi importanti dalla Sentenza Palermitana anche  alla luce di sentenze successive di altri Tribunali. Dal superamento del tradizionale concetto di malattia alla capacità lavorativa

Come già scritto precedentemente, dalla certificazione medica prodotta dal ricorrente,  il TAR ha potuto verificare  la sua grave condizione. In particolare, che  l’uomo dipende completamente da persone esterne, ha bisogno di assistenza continua e specializzata per la cura personale, la terapia riabilitativa, il suo posizionamento nella sedia a rotelle o a letto, così come per lo svolgimento di tutte le attività quotidiane o delle attività lavorative. Ma nel documento è anche dettagliatamente  attestata la ripercussione psico-fisica e  lo stato di sofferenza morale a cui è stato sottoposto. Si legge: “dal gennaio 2011 il paziente non ha potuto usufruire di un adeguato livello di assistenza, con marcate ripercussioni sul suo stato di salute fisico e psichico. In atto, il paziente presenta un disturbo depressivo relativo alla situazione di stress personale, familiare a lavorativo, con marcata retroattività ansiosa, cioè effetto dell’ansia anche in un tempo precedente a quando si verifica un fatto, fenomeni di somatizzazione, irritabilità e “labilità emotiva” (ossia, ogni minima emozione turba profondamente il paziente) e grave deflessione (cioè deviazione) del tono dell’umore con ideazione di rovina e tendenza al pianto (vale a dire, senso catastrofe). Altresì il paziente presenta complicanze legate all’immobilità e al non adeguato mantenimento delle posture e della posizione in carrozzina, quali lesioni da decubito di II grado in serie sacrale e al livello delle prominenze ossee delle mani” (cfr sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).

Partendo dalla certificazione medica e guardando alla decisione della Corte  di Palermo, troviamo  un’ aspetto che verrà riconosciuto successivamente dal Tribunale Civile di Ascoli Piceno con sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013: il risarcimento deve coprire la sfera economica, fisica e morale della persona laddove la decisione degli Enti Pubblici ha avuto un impatto patologico sulla sfera psico-fisica e morale della persona.  La sentenza del 2014 del Tribunale Marchigiano poi, riconosce specificatamente il “risarcimento per stress” e collega questo impatto negativo psico-fisico  alla mancata erogazione di un particolare tipo di assistenza,  quella indiretta,  fornita attraverso una persona scelta dell’interessato.  In quel caso però parliamo di servizi rientranti nell’area sociale e, dunque, non garantiti in modo uniforme su territorio nazionale. Perciò l’importanza della sentenza marchigiana sta nel fatto che,  più  in generale, Il Tribunale di Ascoli ha riconosciuto la presenza di una discriminazione (rendendo effettiva la legge 67/2006 che tutela le persone con disabilità in tal senso) ogni volta che all’interessato non vengano erogati dei “servizi sociali” rispondenti alle sue specifiche esigenze.

Nonostante le criticità di questa sentenza (già evidenziate cfr. in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”, partendo da quella di Palermo e collegandole, appare evidente ancor di più che la persona è un’unica entità che comprende psiche (anima per chi crede) e corpo.  Aspetti che interagiscono tra loro. Dunque la disabilità deve essere sganciata dal classico concetto di “malattia” ma ampliarsi ad altre sfere che riguardano aspetti dell’esistenza della persona, della sua sfera psico-fisica  fino ad arrivare ad una vera e propria discriminazione oltre al danno (vedi sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013 Tribunale Civile di Ascoli e sent. 154-156-157 Tar Piemonte del 2015). E il venir meno di certe prestazioni, come quelle assistenziali, crea delle problematiche che vanno ben oltre il semplice “diritto all’assistenza”: ce lo dicono proprio le sentenze delle Corti nei vari casi di specie affrontati.

Ma allora, sorge una domanda: se il concetto di salute è ampio,  prende di nuovo corpo l’idea  che “queste prestazioni non devono essere sacrificate da politiche di bilancio” come stabilito dal Tribunale Civile di Ascoli con la sent. del 2014 e dal TAR della Regione Piemonte con le sentt.  del 2015 (crf. in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”  e cfr. in  “Assistenza domiciliare professionale: un diritto garantito a metà e non sempre”). 

Tuttavia,  mentre la sent. del Tribunale marchigiano  ha delle ombre e non   obietta il fatto che le prestazioni assistenziali derivano dall’area sociale di competenza degli Enti Locali, con il  TAR Piemontese si fa un ulteriore passo avanti perché, seppure il giudizio finale  rientra nei limiti di una normativa nazionale che nel tempo  ha già  indebolito la garanzia  di questi diritti fondamentali,  si riapre e affronta la questione che  gli interventi assistenziali devono essere garantiti dal servizio sanitario nazionale (LEA: Livelli Essenziali delle Prestazioni) e non rimessi alla discrezionalità degli Enti locali (cfr. in  “Assistenza domiciliare professionale: un diritto garantito a metà e non sempre).

Tornando al giudizio del TAR di Palermo:  che il tradizionale concetto di malattia “può” e “deve” essere superato ce lo dice un altro passaggio del certificato medico prodotto dal ricorrente. Nel documento si attesta che tra le attività di vita dell’interessato, è stata compromessa anche quella “lavorativa”. Confermare ciò a livello giuridico è un passo importantissimo. Della circostanza che l’uomo lavorasse poi, la Corte ha acquisito anche l’elemento delle testimonianze. Dunque, il punto fondamentale è: l’incapacità di una persona di compiere autonomamente atti di vita quotidiana, anche nei casi più gravi non può essere collegata necessariamente a un’ estesa e blindata  “incapacità lavorativa”.

Il pregiudizio può essere superato ricordando all’infinito  che la persona con disabilità non rientra in un modello standard . Nella tipologia delle persone cd. non autosufficienti rientrano persone con esigenze diverse che hanno bisogno di cure per tutto l’arco della vita o che si devono inserire nella vita quotidiana come chiunque altro. L’unica cosa che le accomuna è che tutte hanno bisogno di supporto nella vita quotidiana – ognuno per la sua specifica esigenza – compreso l’uscire di casa, non restare segregati, e  coltivare l’aspetto umano e relazionale verso il modo esterno nonché raggiungere e vivere il proprio ambiente lavorativo per chi può far conto su tale capacità anche in situazioni considerate gravi per altri aspetti. Nel caso specifico il ricorrente è laureato (nella sentenza stessa viene definito Dott.) e ha messo ha frutto la sua risorsa immateriale (supportato dagli ausili giusti che la tecnologia mette a disposizione) per poter lavorare e cioè, la sua capacità intellettiva.  Riducendogli drasticamente l’assistenza all’uomo è stato impedito anche di svolgere – tra le altre – le proprie attività lavorative. 

Il pregiudizio della disabilità (media o grave/gravissima)  legata a incapacità lavorativa poi, mi porta a porre una domanda e a fare una ulteriore considerazione: il danno esistenziale alla persona con disabilità laddove non viene riconosciuta questa capacità solo perché “disabile” (nonostante la si abbia) può essere imputato anche a certi “professionisti” che orientano gli interessati in percorsi di categoria omologanti …? ……Io penso proprio di si dato che chi ricopre certi ruoli non può in nessun caso partire da un’ottica cosi pregiudizievole e influire con ripercussioni gravi  sulle vite delle persone con disabilità. Peccato che solo da tempi recenti,   a livello giuridico,  si ha  consapevolezza del “danno esistenziale”, cosi come isolati ricorrenti che lo invocano. Però ci sono sempre stati  gli ostinati, che nel proprio piccolo hanno abbattuto col “fare” le certezze di certi personaggi.  Mi piace pensare che oggi, se qualcuno  dovesse operare in maniera pregiudizievole, lo si potrebbe denunciare per “danno esistenziale” .

In ultimo un’altra considerazione (oltre al superamento del pregiudizio diffuso dell’incapacità lavorativa di alcuni) va sottolineata: la persona con disabilità non è solo “consumatrice di welfare” ma può essere anche “produttrice di welfare”.

1.6 L’ «incidenza sui diritti inviolabili della persona: dalla normativa nazionale a quella internazionale

1.6.1 La dignità umana, i diritti fondamentali, le libertà e il danno: dalla normativa alle Corti

Il giudizio del TAR di Palermo collega in maniera concreta il diritto all’assistenza ai valori più alti sia dell’ordinamento nazionale che internazionale. La mancata erogazione di tali prestazioni dunque – partendo dalla  nostra normativa – ha comportato l’«incidenza sui diritti costituzionali inviolabili della persona, della salute e della dignità umana del disabile» (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).   Nell’affermare ciò, la Corte fa riferimento ai diritti di cui all’art. 32 della Costituzionediritto alla salute”, art. 38 Costituzione:diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”, Art. 2 Costituzione  “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Ma, basandosi sulla sent.  Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191,    prosegue allargando agli ordinamenti internazionali e sottolineando che i  diritti inviolabili  sono ribaditi dalla Carta di Nizza, come anche  dal Trattato di Lisbona, dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Ue, dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, e  dalla Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilitàNel caso specifico del ricorrente, la Corte  – sempre basandosi sulla sentenza della Cassazione Civile “autonomia ontologica del  danno morale  a prescindere dalla quantificazione del danno biologico” – , delinea un ponte tra l’ordinamento nazionale e quello internazionale, e sottolinea che il diverso bene protetto  “attiene ad un diritto inviolabile della persona (la sua integrità morale)”. In altre, parole si parla  dell’ integrità morale come un diritto inviolabile, che se leso costituisce un  danno all’esistenza della persona da considerare a se stante  rispetto al danno biologico  (salute psico-fisica).

1.6.1.2 La dignità umana: analisi in dettaglio della normativa di riferimento alla luce delle sentenze

In dettaglio e conformemente alla  sentenza   Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191  dunque,  anche il TAR specifica che: l’articolo 2 della Costituzione deve essere letto in correlazione con la Carta di Nizza all’art. 1 (La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata), ma anche con il Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130. Tale Trattato riguarda anch’esso la dignità umana, ma anche il diritto alla libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia e – in particolare –  rafforza anche i diritti delle persone con disabilità nell’UE.

L’articolo 2 della Cost. poi, va letto anche in relazione con la Convenzione delle Nazioni Unite che cala i diritti umani e le libertà fondamentali nella realtà specifica delle  persone con disabilità . Tali diritti sono quelli di tutti gli altri, la Convenzione però li contestualizza e mira a renderli cogenti. In particolare l’ art. 1, c. 1 ne definisce lo scopo e cioè, quello di  promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, come anche il rispetto per la loro intrinseca dignità; così come  anche  l’art. 4 c. 1: mira a “garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità”  adottando “ (…)  tutte le misure, incluse quelle legislative, idonee a modificare o ad abrogare qualsiasi legge, regolamento, consuetudine e pratica vigente che costituisca una discriminazione nei confronti di persone con disabilità” – lt. b) –  e tenendo conto “ della protezione e della promozione dei diritti umani delle persone con disabilità in tutte le politiche e in tutti i programmi” – lt. c) – astenendosi  “dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione” – lt. d). Inoltre, la garanzia dei diritti e delle libertà deve avvenire anche adottando “ tutte le misure adeguate ad eliminare la discriminazione sulla base della disabilità da parte di qualsiasi persona, organizzazione o impresa privata” – lt. e);

Una tale lettura integrata – normativa nazionale e normativa internazionale nonché sentenze delle Corti – rispetto alla persona  “colloca la Dignità umana come la massima espressione della sua integrità morale e biologica” (crfr.  Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191   e sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo). La  Corte di Palermo – a mio avviso –  in concreto  supera la diatriba se il danno morale sia collegabile al danno all’immagine, al decoro e alla dignità della persona (pretium doloris). Dalle sentenza del 2012  emerge con chiarezza che il danno cagionato  al ricorrente ha investito ognuno di questi aspetti sia nella sfera della sua persona che negli equilibri della sua vita quotidiana dai quali è conseguito un danno morale. 

Inoltre, come stabilito dalla Corte di Cassazione,  la  valutazione del danno morale – come già accennato autonoma rispetto alla diversità del bene protetto – avviene contemporaneamente alla lesione del diritto alla salute  perciò “deve tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della gravita’ del fatto” e il valore dell’integrità morale NON  deve essere considerata   una quota minore del danno alla salute (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191; Cass. 19 agosto 2003 n. 12124; Cass. 27 giugno 2007 n. 14846;  SU 11 novembre 2008 n. 9672 – punto 2.10).  Anche su questo il TAR Palermitano è andato oltre: non solo il danno  morale (conseguito a da quello esistenziale), non è stato considerato “minore” rispetto a quello alla salute tradizionalmente intesa. Addirittura la lesione dell’aspetto relazionale/esistenziale e morale ha superato la considerazione e l’incidenza di quello biologico.

1.6.1.3 L’autonomia, l’inserimento sociale e professionale, la partecipazione

Partendo sempre dalla Costituzione Italiana, e rispetto all’«incidenza sui diritti costituzionali inviolabili della persona, della salute e della dignità umana del disabile» (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo), il TAR  contestualizza ancor di più la sua posizione evidenziando che l’articolo 2 della Cost. va letto anche  in correlazione con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) anche all’art. 26 (Inserimento delle persone con disabilità) ove dispone che  L’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.  In questo senso, il Tribunale fa riferimento anche  alla Convenzione ONU delle persone con disabilità  in relazione  all’art. 9 (accessibilità) c.1 che sancisce:     “Al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli aspetti della vita, gli Stati Parti adottano misure adeguate a garantire alle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, l’accesso all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o forniti al pubblico, sia nelle aree urbane che in quelle rurali”  “Queste misure, che includono l’identificazione e l’eliminazione di ostacoli e barriere all’accessibilità si applicano, tra l’altro, a:

a) edifici, viabilità, trasporti e altre strutture interne ed esterne, comprese scuole, alloggi, strutture sanitarie e luoghi di lavoro;

b) ai servizi di informazione, comunicazione e altri, compresi i servizi informatici e quelli di emergenza”;  

Inoltre, sempre con riferimento alla Convezione ONU, l’art. 2 Cost. va letto pure  in relazione  all’art. 19 (Vita Indipendente ed inclusione nella società) c.1 che ci parla del diritto alla  libertà di scelta: Gli Stati Parti alla presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che:

  1. le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione.
  2. le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione
  3. i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni”.

1.6.1.4 Il diritto alla privacy inizia a diventare reale tanto da essere anche parte del danno?

Un fatto importantissimo  è che – secondo le Corti – l’articolo 2 della Cost. va letto  anche collegandolo alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo  (CEDU)  che all’art. 8  commi 1 e 2 – per “come interpretato evolutivamente dalla Corte di Strasburgo” (Cfr.  Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191   e sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo)  –  stabilisce che  “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Nel caso specifico sottoposto al TAR di Palermo nel 2012, appare evidente che anche il cd. “diritto alla privacy” – che rientra nei diritti umani fondamentali – è stato violato. Infatti, la riduzione drastica delle prestazioni assistenziali ha sconvolto la “vita privata e familiare dell’uomo con disabilità”  incidendo sulla sua  condizione psico-fisica impedendogli le normali attività quotidiane. Dunque, l’impatto sull’interessato  ha coinvolto la sua salute, la sua sfera morale e la sua libertà individuale la quale,  è legata indissolubilmente anche al diritto alla privacy. Tanto più che dalla sentenza emerge anche che una tale situazione – che poteva essere evitata dalla Pubblica Amministrazione se non avesse avuto un comportamento omissivo trasformato poi in tagli alle prestazioni – nei fatti è stata una vera e propria ingerenza illegittima nella vita dell’uomo.

Una considerazione: riconoscere  da parte del Tribunale che è stata violata la vita privata dell’uomo proprio limitandogli il diritto all’assistenza, mi permettere di collegare la  sentenza palermitana ad una mia teoria esposta in un articolo nel quale,  con riferimento però allo specifico tema dell’assistenza cd. indiretta (cioè quella erogata con un operatore scelto direttamente dall’interessato), mi chiedevo se negare quel tipo di prestazioni poteva finalmente dare effettività al diritto alla privacy come diritto umano fondamentale  – inscindibile da tutti gli altri diritti fondamentali –  fino a configurare una vera e propria ipotesi di reato in caso di violazione (cfr. in: “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato….?.”.

Specificatamente, in quell’occasione facevo rifermento alla libertà di scelta della persona con disabilità rispetto all’operatore da cui farsi assistere ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 104/1992 e  della Convenzione ONU sulle persone con disabilità che all’articolo 19 (vita indipendente) ci parla proprio di questa libertà. Dalla compressione della  libertà di scelta dunque,  ipotizzavo  anche  un reato  per violazione del diritto alla privacy ai sensi dell’art. 22 c. della Convenzione ONU che ne sottolinea l’inviolabilità in quanto diritto umano anche delle persone con disabilità. In quel caso, in particolare,  affrontavo l’”interferenza arbitraria o illegale nella vita privata e nella propria casa”,   la dove la persona con disabilità è costretta – a causa dell’ imposizione degli operatori da parte degli Enti pubblici e da necessità – ad aprire la porta e farsi mettere addosso le mani da chiunque. Una costrizione che mi ha permesso di far riferimento all’art. 615 bis del nostro codice penale il quale chiarisce che attraverso l’ interferenza nella vita privata, viene messa in pericolo la riservatezza dei rapporti umani della persona che nei luoghi domestici  si svolgono. Inoltre, l’art. 614 del codice penale stabilisce che nella violazione di domicilio viene messa in pericolo la “integrità territoriale” della sfera della casa altrui, che è un luogo sacrosanto e inviolabile contro la propria volontà ma lo è  anche nel caso in cui  tale volontà  è in realtà  costretta da necessità ogni volta che si sarebbe potuto scegliere diversamente. A seguire, guardavo  ai principi massimi del nostro ordinamento e cioè, all’articolo 14 della Costituzione che a monte sancisce l’inviolabilità del domicilio e la protezione della casa come regno personale e della propria famiglia. Ma prendevo a riferimento anche  l’articolo 13 della Costituzione  estendendolo al diritto alla vita privata  laddove afferma l’inviolabilità della libertà personale garantendo la persona da ogni “indebita intromissione” nella sua “sfera psichica e fisica”……

Sempre in quell’articolo – anche se partendo da presupposti diversi – prendevo come riferimento di base l’articolo 2 della Costituzione (Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191 e sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo) utilizzandolo come “cornice unica” della normativa di cui ho parlato fino ad ora. Infatti, con questo articolo la nostra Carta Costituzionale mette la persona al centro dell’ordinamento giuridico, riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia a livello sociale.       Perciò, scrivevo, anche la vita privata deve  essere assicurata ed è riconosciuta come un diritto protetto costituzionalmente.

Non solo: nell’articolo sostenevo che anche l’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il quale  sancisce la “garanzia relativa al pieno sviluppo della persona umana” (aspetto fondamentale di cui tener conto quando si ipotizza un danno esistenziale come si è finora visto) , sembra poter comprendere il diritto alla privacy.  In quello scritto, dopo una disamina, ponevo – tra le altre – le seguenti domande:

  1. Può il decisore pubblico limitare la libertà di scelta del cittadino e di fatto violarlo nella sua sfera privata sia fisica (indubbiamente anche psichica) che di relazione?…..
  2. Può il decisore pubblico (…..) violare il corpo, gli ambienti e gli equilibri familiari della persona?

Domande che sorgono   anche guardando indietro nel tempo alla  sentenza del TAR di Palermo del 2012  per aspetti diversi (contesto della situazione specifica) ma uguali ove  è riconosciuto il danno sia esistenziale (libertà, relazione con gli altri, atti di vita quotidiana, aspetto morale) che biologico (aspetto psico-fisico). Ma anche quesiti che ci continuiamo a porre considerando che il presupposto degli abusi a determinate categorie di persone è sempre  un’azione indebita della Pubblica Amministrazione attraverso il  taglio della prestazioni assistenziali di qualunque tipo esse siano.  

Tanto che, come già detto, anche il TAR di Palermo  riferimento  al diritto alla privacy  (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo  (CEDU)  che all’art. 8  commi 1 e 2)  perché nei fatti – rispetto alla situazione  del ricorrente – si son dimostrate le conseguenze del fatto  che l’ingerenza della Pubblica Amministrazione – tra le altre cose –   ha ampiamente violato la sfera della persona sotto questo punto di vista. Anche in questo caso emerge chiaramente si è violato il corpo dell’uomo (sfera psico-fisica) nonché gli  equilibri familiari dello stesso condizionandone il vivere negli ambienti domestici ed esterni. Perciò anche la violazione della privacy del ricorrente è parte del danno riconosciuto dalla Corte.

E allora la teoria a favore della tutela della privacy che ipotizzavo in   “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato….?….” (che scrivevo in un tempo successivo  alla sentenza perché ne  sono venuta a conoscenza solo successivamente a quella teoria) si può arricchire normativamente  riferendoci anche alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo  (CEDU), art. 8  commi 1 e 2,  come pure  dell’elemento dell’eventualità di  danno esistenziale e biologico rispetto alle prestazioni assistenziali rivolte alle persone con disabilità in quanto, anche la violazione della privacy costituisce presupposto di danno.  E’ il Tar di Palermo che  ha reso tutto questo concreto e rivendicabile. 

1.7 La libertà di scelta è un’utopia o le Corti hanno iniziato a renderla effettiva per le persone con disabilità?: la suprema Corte di Cassazione.

Partendo dal danno esistenziale riconosciuto alle persone con disabilità (sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo)  in caso di mancata o limitata erogazione delle prestazioni assistenziali,  la mia attenzione è andata su una sentenza del 2013 proveniente da un altro Tribunale. In questo senso,  non posso far a meno di pensare che quella del TAR di Palermo possa aver fatto in un certo senso da apripista. Infatti, la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 19963 del 30 agosto 2013, ha sancito il diritto ad un indennizzo per danno esistenziale per chi riporta un grave handicap, in seguito a un incidente, al punto che la sua vita di relazione viene compromessa in modo importante. Un’altra Corte dunque,  viene di nuovo a garantire il diritto al  risarcimento per danni cagionati ad una persona che si ripercuotono soprattutto sul piano della relazione con gli altri e provocano una alterazione della libera scelta. Di nuovo dunque (chiaramente in un altro contesto),  si parla delle persone ponendo l’attenzione sulla “libera scelta individuale” e lo si fa proprio con riferimento alla disabilità.  

1.8. Cosa ha accolto il TAR di Palermo 

Il decreto dirigenziale dell’Assessorato regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, come già visto, è in ultimo annullato dal TAR di Palermo nella parte in cui ha limitato nel tempo  e ridotto l’erogazione delle prestazioni volte al ricorrente e in più, a quest’ultimo è stato riconosciuto un danno biologico ed esistenziale. Ma un altro punto importante è che l’annullamento è  accolto  anche nella parte in cui tale decreto ha considerato  la quota d’indennità statale destinata all’accompagnamento come “indice (cioè valore) per stabilire la capacità economica della persona con disabilità in questione” detraendola dagli importi da corrispondere. Questo è un altro argomento che ci riporta ai giorni nostri e agli abusi in tal senso contenuti nel decreto sul cd. Nuovo ISEE . Situazione che ha portato le persone con disabilità e le famiglie a ricorrere al TAR contro tale decreto su vari punti  tra cui quello che l’indennità di accompagnamento non è indice di reddito (cfr. in  Governo: analisi personale delle dichiarazioni del commissario alla spending review).

Tuttavia, nonostante i TAR  hanno dato ragione ai ricorrenti, il governo ha ignorato tali sentenze, temporeggiato e continuato ad utilizzare le modalità delle soglie di accesso alle prestazioni fissate in quel decreto (di fatto a danno dei cittadini),  e ha preannunciato  un’azione giudiziaria al Consiglio di Stato.

1.9 Cosa non ha accolto il TAR di Palermo

La Regione Sicilia, allo scopo di contenere la spesa pubblica, ha stabilito per l’assistenza personale volta alla vita autodeterminata delle persone con disabilità grave, un tetto annuo abbastanza alto rispetto anche ad altre Regioni d’Italia (decreto assessoriale n. 28 del 17 gennaio 2011). Il Tar della Sicilia ha ritenuto legittimo che nel Decreto  sia stato stabilito un tetto annuale massimo per tale finanziamento al fine di contenere la spesa pubblica sanitaria e data la scarsità delle risorse disponibili. Inoltre, secondo la Corte, fissare un tetto ha lo scopo di garantire l’”imparzialità e la parità di trattamento” nell’ erogazione dei contributi e, perciò,  non è sindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo. In questo senso la Corte riconosce all’Ente Pubblico un’alta discrezionalità nel paragonare e decidere su esigenze aventi entrambe garanzia costituzionale e cioè, l’assistenza sanitaria da erogare e garantire  e la relativa copertura di bilancio.  

Il Tribunale sottolinea che questa discrezionalità non ha alcun profilo di “manifesta illogicità” (quindi ritiene la scelta della Pubblica Amministrazione logica sul piano di diritto e di fatto nel caso concreto dell’uomo), né che il richiedente l’assistenza sanitaria può vantare un diritto soggettivo all’elargizione di una contribuzione minima   proprio per la necessità di bilanciamento di entrambi gli interessi (l’assistenza sanitaria per l’interessato e la disponibilità di risorse dell’Ente Pubblico). La mancanza di un diritto soggettivo all’assistenza sanitaria è il  punto dolente rispetto alla  sottrazione dei diritti fondamentali alle persone con disabilità che ho affrontato esaminando le successive sentenze    n. 154-156-157 del 2015 del TAR Piemonte

Nell’articolo “Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario” ho sottolineato che il trasferimento di tutta una serie di prestazioni all’area integrata socio sanitaria –  tra cui quelle rivolte alle persone non autosufficienti e all’assistenza –  ha comportato che una parte degli interventi sono un diritto esigibile in quanto di natura sanitaria  e, dunque, a carico del SSN. 

Mentre, a tutt’oggi, l’altra parte degli interventi sono considerati di natura sociale quindi  a  carico dell’utente e/o con un’integrazione è a carico del Comune, senza che la normativa statale (compresa la legge 328 del 2000 di Riforma dell’assistenza) definisca alcun diritto soggettivo a beneficiarne. Da ricordare poi che  solo con  la legge finanziaria del 2003 si è riconquistata  in parte l’esigibilità del diritto  a determinati interventi. Infatti,  prima del 1985 si aveva la  piena esigibilità delle prestazioni ma, a seguito di  scellerati provvedimenti normativi, questo presupposto è stato addirittura soppresso.

Dunque il TAR del Piemonte nel 2015, ribadisce questa esigibilità almeno della  parte sanitaria dell’assistenza leggendo la legge nazionale alla luce dei principi della Costituzione nonché della Corte Costituzionale e di altre sentenze di Tribunali Amministrativi. Invece,  la precedente sentenza del TAR di Palermo (presa in esame in questo scritto)  nel 2012  nega al ricorrente  tale esigibilità  – attraverso la riduzione  indebita delle prestazioni –  motivandola collegandola alle esigenze di copertura di bilancio. Una circostanza non solo criticabile ma oggi anche contestabile perché il    TAR del Piemonte – nel 2015 – non solo ha chiarito che una parte dell’assistenza sanitaria rientra nei Lea e va garantita, ma  ha anche  ribadito  che le politiche di risparmio “non possono comprimere i diritti umani”. La Corte Piemontese ha  evidenziato  che  laddove  l’esecuzione del programma di solidarietà sancito nella Costituzione incontra ostacoli di tipo economico-finanziario per l’obiettiva carenza di risorse da stanziare e/o in caso di accordi di rientro da deficit, il rimedio più immediato non è la violazione dei LEA negandoli, ma è una “diversa allocazione delle risorse disponibili” (come stabilito anche dalla sent. 36/2013 della Corte Costituzionale). Cfr. Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario”.

Anche il fatto che la posizione del TAR di Palermo è dettata da esigenze di “imparzialità e parità di trattamento” è criticabile proprio perché queste non guardano all’”esigenza personale” dell’interessato ma mirano esclusivamente a un “livellamento” generale che poggia sulle risorse disponibili. Questo è un errore (pari diritto con gli altri e risorse disponibili) che fa anche il Tribunale Civile di Ascoli Piceno per la parte sociale delle prestazioni.  Nonostante infatti  la  sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013 del Tribunale marchigiano ha stabilito che “negare le prestazioni sociali è discriminazione”, questa tutela appare  non pienamente efficace. Infatti, tra le varie contraddizioni esposte nell’articolo  Assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”,  in quell’occasione il Giudice prima ha sottolineato che “anche in caso di risorse scarse gli Enti Pubblici obbligati – in situazioni di disagio – a trovare un accomodamento ragionevole per non creare esclusione sociale”. Certamente  questo è importante perché anche in questa sentenza si supera  la scusa degli Enti Pubblici che si dicono costretti al  “taglio delle prestazioni perché non ci sono i soli” e in più si riconosce (ai sensi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità) il loro obbligo a cercare un “adattamento ragionevole” rispetto alle esigenze di vita della persona. Tuttavia, il Giudice ha  poi   accolto  come non discriminatorio  che alla persona con disabilità  sono state concesse un “massimo di 8 ore settimanali” (un’ora e mezza al giorno)  di assistenza  per la cura della propria igiene personale e della propria casa.  In altre parole, il Giudice ha ritenuto congrui il tetto di ore fissato dal Comune  in base alle risorse scarse disponibili e ad una parità di trattamento “omologante” non preoccupandosi di verificare se quel quantum cosi basso fosse veramente rispondente alle esigenze della persona e se in concreto fosse sufficiente – tanto da costituire un appropriato adattamento ragionevole – a non creare l’esclusione sociale dell’interessato e a garantirgli la possibilità di vivere una esistenza dignitosa.   In tal senso si vedano i molti  dubbi  che ho evidenziato nell’articolo Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario”.

Fermo restando che se si volesse veramente non discriminare e superare tutto questo, l’area sociale non dovrebbe proprio riguardare le categorie di utenti – come quelli non autosufficienti nel nostro caso e che usufruiscono di prestazioni “vitali” – che sono state dal 1985 in poi  man mano e ingiustamente comprese nell’area di integrazione socio-sanitaria anziché lasciati nell’ambito della completa tutela della sfera sanitaria nazionale. Tutto questo detto va letto in termini di principio: anche se al ricorrente la Pubblica Amministrazione ha  riconosciuto  un importo massimo annuale che è il triplo o il quadruplo di quanto è stato stabilito in altre regioni d’Italia, quello che bisogna capire è che va guardata l’esigenza personale di chi ha bisogno di certe prestazioni e che non ci può essere “scelta” dell’Ente Locale su “se” concederle e/o su “quanto concedere” tra una realtà territoriale e l’altra. Questa è una disomogeneità su territorio nazionale inaccettabile di fronte a quelle che sono senza dubbio esigenze vitali di alcune persone e diritti umani fondamentali. Una disomogeneità che però è stata resa possibile dalla riforma del Titolo V della Costituzione e da una normativa statale che – come precedentemente abbiamo visto – dal 1985 in poi ha aperto la via all’espulsione di alcune categorie dal godimento di certi diritti.

Concludendo, appare evidente che sulla via tracciata dalle Corti e guardando alla normativa nazionale ed internazionale, oggi possiamo iniziare a credere che la libertà individuale e la libera scelta di come, dove e con chi  vivere la propria vita  è qualcosa di concreto e si può addirittura rivendicare come danno alla propria esistenza quando negata. Il primo passo è rendersene conto. Il secondo passo invece è partire dal cammino delle Corti, guardare oltre i casi specifici delle sentenze e focalizzare l’attenzione sul fatto che troppo spesso la vita delle persone con disabilità viene ostacolata e sconvolta non solo nell’ambito trattato finora, ma ogni volta che queste vengono escluse da una inclusione vera in ogni ambito sia pubblico che privato.  Ma  oggi, guardando alla normativa e alle Corti,  il diritto e il danno alla libertà individuale appare molto più reale e possibile.

Aprite le ali e liberate la vostra libertà

Eleonora Campus

  

 

 
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Pubblicato da su 27 giugno 2015 in Disabilità: Sentenze

 

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IL CARCERE DELLA DISABILITA’: IL NUOVO PANOPTICON!!!

IL CARCERE DELLA DISABILITA’: IL NUOVO PANOPTICON!!!

Autore: Eleonora Campus

Se avete qualche minuto, vi invito a leggere questo pezzo e a seguire il mio ragionamento, quasi fosse un percorso tra passato e presente da fare insieme. 

Nel nostro ordinamento vige un  principio importante: nessuna persona – compresa se stessa – può disporre del corpo dell’uomo.  Perciò ogni intervento su un essere umano,   deve avvenire nel rispetto dei principi della salvaguardia della vita, dell’integrità fisica e della salute, dell’eguaglianza e pari dignità,  della libertà di scelta e della capacità di autodeterminazione individuale.

Ma nonostante il nostro ordinamento giuridico metta al centro la persona come “soggetto” e base dei diritti fondamentali, alcune categorie di individui    vengono  considerati ed usati come un oggetto  di guadagno ossia, devono produrre  un’”utilità economica” per dare la “massima felicità al maggior numero di persone” nella collettività…… Una politica che ha un nome preciso: utilitarismo. Ed è quelle che persegue il Governo verso le persone con disabilità.

Ma quale tipo di governo segue una politica simile  sacrificando  i diritti fondamentali, compresa la libertà individuale,  di alcune minoranze per dare la “massima felicità al maggior numero di persone” nella collettività…..?….. : un Governo incapace e di stampo razzista che pensa di deportare e disporre della vita di alcuni uomini per far cassa e far fronte alla crisi economica.

La realtà umana e sociale è fatta di tante “anormalità”. Ci sono persone di diverso tipo e che hanno esigenze diverse: si tratta di bambini, giovani, adulti,  anziani malati cronici e/o non autosufficienti, persone con disabilità fisica, psichica e sensoriale nonché malati di vario genere in fase cronica…. Queste sono tutte persone che hanno bisogno di cure per tutta la vita o che si  devono inserire nella vita quotidiana come chiunque altro. Senza  assistenza (cioè supporto a scelta cfr. in “negare l’assistenza indiretta e imporre l’operatore è reato?e cfr. in i voucher: un’occasione da cogliere o una verità ingannevole?) non potrebbero ne far fronte alle cure, ne riuscire a vivere a casa propria scegliendo come e con chi vivere, ne includersi nel tessuto della società. 

Ma diamine…. queste persone vivono pensano e rivendicano certe esigenze…..non vogliono o non possono adeguarsi alla regola dell’utilità per la maggioranza …… Non è possibile poi  che le anomalie siano curabili oppure eliminabili da se stesse…..Che fare?…….Allora il Governo incapace si arrovella e si  impone,  progetta leggi, ne divulga la bontà, predispone la “soluzione finale” inneggiata come idilliaca. Come combattere i “miserabili” scomodi che rivendicano i propri diritti…? …..come controllare e contenere il fenomeno?…..  Occorre riformare!… ci dice il Governo…. e una folgorazione lo illumina:  PANOPTICON !!!! Ecco la soluzione!!! E se non bastasse si potrebbe arrivare a delle “Ugly Law” (leggi brutte) …..ma il Governo è cauto, meglio non far capire  troppo in anticipo dove vuole arrivare…… Ma di cosa si tratta? Cosa è il Panopticon e cosa sono le “leggi brutte?”…….

UN MODELLO CARCERARIO: IL PANOPTICON

Il controllo della marginalità sul modello “panoptico”  si basa su un modello carcerario chiamato Panopticon. I criteri di questo modello (mai attuato)  sono stati ideati e ripresi da un filosofo utilitarista per eccellenza, Jeremy Bentham (nato nel 1748), per proporre una riforma della poor law (legge sulla povertà) che si basava sul progetto di rinchiudere  i poveri disoccupati in apposite strutture, che derivava  dalle  case del lavoro (cd. workhouses) che già si era cercato di costruire nella realtà  assistenziale inglese. Bentham però si poneva  contro  la politica assistenzialista attraverso sussidi alle famiglie povere che considerava fatta di sprechi e a caso perché non coordinata da un solo centro efficiente. La sua idea di casa del lavoro doveva avere le caratteristiche del panopticon: un sorveglianza veloce,  carceri con pianta circolare con una direzione centrale e la collocazione al centro dell’occhio di controllo, così come la costruzione di uno spazio scenografico nel quale rappresentare gli “obiettivi pedagogici”  e i rapporti di potere. I poveri cosi raggruppati, avrebbero avuto una vita  controllata e disciplinata basata sulla loro utilità e cioè, sul  rapporto tra merito produttivo e la ricompensa.  Ma in queste case oltre ai poveri, sarebbero dovute essere rinchiuse tutte le categorie marginali comprese le persone con disabilità.

Superare gli sprechi dei sussidi e dell’assistenzialismo!!! Guardare al criterio della produttività!!!! Necessità di controllare e contenere i poveri, i marginali e gli svantaggiati in genere  facendoli  lavorare (ove possibile) rendendoli produttivi e autofinanziatori della casa stessa!!!.  Questi gli ingredienti dell’utilitarista estremo secondo il quale  la costruzione e la gestione dell’ospizio impone un costo alla maggior parte dei contribuenti, riducendo la loro felicità e quindi il loro guadagno…… Per Bentham non  bisognava astenersi dai problemi economici e sociali ma si doveva governare i fenomeni. Un governo del sopruso però, non certo del diritto e della dignità umana. Tanto che per riuscire a rinchiudere tutti i marginali, si sarebbero dovute appaltare queste persone ad una apposita compagnia creata  allo scopo e  che avrebbe avuto il potere di deportare forzatamente le persone nelle strutture costituite dalla compagnia stessa…..Anzi, ogni cittadino che si fosse imbattuto  in una persona marginale, sarebbe stato autorizzato a farla ricoverare nell’ospizio più vicino, dove sarebbe obbligata a rimanere, lavorando per pagare il proprio mantenimento. Il bilancio sarebbe stato quantificato “conto di auto emancipazione” , dove sarebbero state  elencate le spese per il vitto, il vestiario, l’alloggio, le cure mediche, oltre che per una polizza di assicurazione sulla vita nel caso lo svantaggiato  fosse morto prima di aver saldato tutti i debiti. Per stimolare  i cittadini a prendersi  il fastidio di fermare i  cd. svantaggiati  e consegnarli all’ospizio, si proponeva una ricompensa per ciascuna cattura , che si sarebbe sommata   alle spese addebitate alla persona marginale stessa….

Il progetto di Bentham era mirato a ridurre la presenza delle categorie marginali nei luoghi pubblici. E se pensiamo che  fino al 1970, in molte giurisdizioni degli Stati Uniti sono state codificate e attuate le cosiddette “leggi brutte”  (cd. Ugly Law abrogate solo nella metà degli anni 70) che impedivano di apparire in pubblico alle  persone con malattie o deturpazioni  considerate antiestetiche….possiamo già capire che non è vero che questo progetto – anche in parte – non è mai stato attuato. Secondo il  ragionamento dell’utilità (nato per tutti i cd. marginali), calandolo  nell’ambito della disabilità,  quando una persona cd. normodotata si imbatte in una persona con disabilità  la sua felicità viene limitata in due modi: chi ha il cuore tenero alla vista di un disabile soffre per simpatia; chi ha il cuore duro soffre per disgusto.  In tutti e due  i casi, l’incontro con le persone con disabilità (ed i marginali in genere)   riduce l’utile della popolazione in genere, e quindi Bentham  suggerisce di toglierli dalle strade e relegarli in un ospizio.

Pur riconoscendo che alcune di queste persone  sarebbero più felici diversamente, anziché dover vivere   in uno ospizio (e lavorarci ove possibile con gli altri soggetti marginali), il filosofo ritiene  però che per ogni soggetto disabile – o marginale –  felice e benestante, ve ne sono molti ridotti in condizioni miserevoli, per cui la somma delle sofferenze patite dalla maggior parte della collettività “supera” ogni eventuale infelicità subita dei soggetti svantaggiati  trasferiti a forza in queste case.

I gestori delle case del lavoro però, sarebbero stati “tanto buoni” da pensare anche ai residenti:  gli alloggi sarebbero stati assegnati all’Interno della strutture secondo la logica utilitaristica per ridurre al minimo il disagio imposto ai residenti dai loro vicini. Perciò, per esempio accanto ai pazienti irascibili e incontenibili, o alle persone di chiacchera senza limiti, collocare i sordi  e i muti….. Accanto alle prostitute e alle donne facili, sistemare le donne anziane. Secondo Bentham occorreva  “Collocare, accanto a ogni classe da cui si può prevedere qualche inconveniente, una classe di persone insensibili a quell’inconveniente”. Così anche rispetto agli effetti da “deformità impressionanti”, alloggiarli accanto ai ricoverati ciechi……

IL CARCERE DELLA DISABILITA’ OGGI

Bentham voleva  favorire il benessere generale dando  soluzione a un problema che riduceva l’utilità della maggioranza delle persone…..   Ma lo spirito utilitarista che animava il progetto è vivo e vegeto ai nostri giorni.   E per alcune persone come quelle con disabilità si può arrivare a dire che è stato costantemente attuato, forse non alla lettera, ma in buona sostanza si. Come?….:  negando costantemente i diritti fondamentali e la libertà di scelta sia su come vivere, dove vivere, con chi vivere e da chi farsi mettere le mani addosso.   Creando anche dei progetti di legge che predispongono delle strutture definite “dopo di noi” che altro non sono che l’eredità e l’attuazione del progetto utilitarista di Bentham….

Il modello panoptico sta prendendo forma, solo che chiamandolo “casa del dopo di noi” lo si camuffa, lo si confonde…..Non si dice che il progetto utilitarista viola la libertà individuale delle persone, deportandole,  e che la si calpesta ad un costo ben maggiore rispetto ad altre soluzioni basate sulla scelta personale. I diritti umani di alcuni diventano merce e occasione di profitto….  A questo punto sorgono alcune domande:

  1. L’accanimento contro le erogazioni destinate alle persone con disabilità e lo spostamento delle stesse alle cooperative del terzo settore, dichiarata da commissario alle spendig review (cfr. inGoverno: analisi personale del Commissario alla spending review)  non vi ricorda forse l’accanimento utilitarista contro la politica assistenzialista che animava Bentham?……
  2. L’attuale terzo settore, non vi ricorda forse le “compagnie di appalto”  del progetto utilitarista, che avrebbero dovuto sia deportare le persone, sia costruire le strutture dove deportarle? (cfr. in “Governo: riforma del III settore, no profit diventa profit”)
  3. Il buonismo di chi ha il “cuore tenero” o il disgusto di chi ha il “cuore duro”, con l’unico obiettivo di liberarsi delle persone con disabilità sfruttandole al massimo, non vi sembra forse l’atteggiamento di quei normodotati che si dividono in cd. buoni o cd. cattivi?
  4. L’attenzione ai relegati nella case lavoro, da parte dei gestori delle strutture su progetto carcerario, non vi ricorda forse la facilità con cui mi mischiano casi tanto diversi nelle attuali case famiglia?  “Tutti insieme appassionatamente!”: titolo di un film guarda caso ambientato in Austria durante il periodo nazista….
  5. I costi che i contribuenti sostengono, non sono forse quelli che sosteniamo anche noi (persone con disabilità e famiglie) e perciò abbiamo gli stessi diritti umani e materiali…? Ovviamente li dovremmo avere comunque ma è importante sottolineare che siamo contribuenti anche noi. E se pensiamo alle aggressioni volte a far diventare reddito o a stabilire tetti di reddito per le erogazioni destinate alle persone con disabilità, anche il conto di “autofinanziamento” Benthamiano si sta concretizzando!!!!

Panopticon… Panopticon….Panopticon….: ma davvero la logica utilitarista è l’unica possibile…..?.

La risposta è “si”  se si accetta di assecondare un Governo incapace, ignorante, ottuso e razzista che non ha minimamente la volontà di guardare alla qualità della vita di tutti i cittadini. 

La risposta è NO!!!  se ci ricordiamo e prendiamo consapevolezza che alcuni economisti come Amartya Sen, sulla cui teoria delle capacità si basa  anche la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, hanno posto la libertà individuale come ricetta anche alle peggiori crisi, che cambiare si può e che lo si può fare solo in Paesi dove c’è una vera libertà di comunicazione, stampa e pensiero…..Ma questa è un’altra storia che vi racconterò, Per ora ricordate di porre al primo posto la libertà individuale (compresa quella di scegliere la qualità della propria vita) e smantellate le nuove case panoticon che in questi giorni stanno enfatizzando a livello mediatico.

Liberate la vostra libertà.

Eleonora Campus

 
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Pubblicato da su 9 Maggio 2015 in Disabilità: politica ed etica

 

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La città della felicità. L’epurazione dell’imperfetto

La città della felicità. L’epurazione dell’imperfetto

Autore: Eleonora Campus   

Oggi come ieri, le persone con disabilità sono sottoposte a una logica che le vede come oggetti passivi da utilizzare e non come soggetti attivi autodeterminati e liberi come tutti. Si tratta di individui  pesati secondo criteri esclusivamente di convenienza economica. Da una parte, l’utilità di queste persone – secondo questa ottica di abuso –  è alta quando si tratta di espropriarle della loro libertà di scelta e dei loro diritti fondamentali, facendole confluire obbligatoriamente in servizi e prestazioni imposti dal terzo settore.  L’alimentazione del sistema è ghiotta e  prevarica altri esseri umani. Dall’altra parte, la persona con disabilità è vista come un peso da eliminare laddove ha bisogno di cure e supera determinate  soglie di spesa  oltre le quali l’erogazione dei trattamenti sanitari non è più considerata conveniente. L’etica della cura dunque è sostituita dall’etica della guarigione. Le risorse esigue sono il pretesto per non assistere  persone  curabili ma non guaribili. Ci si trova perciò di fronte a una nuova forma di eugenetica basata sul risparmio.

Ecco che,  in entrambi i casi, non viene riconosciuta alle persone con disabilità e/o non autosufficienti la loro “vitalità” e la possibilità di partecipare alle scelte che le riguardano. Invece  si tratta di  persone “vive”, più di tante altre che si sentono al sicuro da certi problemi, che  esistono anche fino al momento dell’ultimo respiro.  (cfr. “i voucher: un’occasione da cogliere o una verità ingannevole?” e ““assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario”). 

Partiamo da una domanda: si può accettare  la violazione dei diritti fondamentali anche di un solo essere umano per non far saltare un sistema e garantire la felicità di una maggioranza di persone “catturando” altri uomini o eliminandoli di fatto laddove non alimentano alcun sistema? Per rispondere a questa domanda, vi racconterò una storia di “fantascienza”….ma siamo sicuri lo sia…?……

C’era una volta ….. (da un racconto di Ursula K. Le Guin, nel 1979: “Quelli che si allontanano da Omelas”)

“C’era una volta” la  città di Omelas…. Qui  domina  la felicità e la celebrazione della convivenza civile. E’ un luogo senza re né schiavi, senza slogan pubblicitari e senza borsa valori.  Non ci sono  neppure armi di distruzione di massa ne polizia segreta. Gli abitanti non sono barbari. Nemmeno sempliciotti. Sono gente “come noi”.    La perfezione però ha  una condizione. “In un seminterrato, sotto uno dei bellissimi edifici pubblici di Omelas, o forse nella cantina di una delle spaziose case private, c’è una stanza. Ha una porta chiusa a chiave e non ha finestre (…)”. E nella stanza è richiuso un bambino ritardato, denutrito, trascurato, che vive giorno dopo giorno nella più squallida desolazione. Tutti gli abitanti di Omelas sanno che è li e che deve stare li in condizioni disumane e tutti sono andati a vederlo tornando a casa distrutti. Però  tutti sanno  che “la loro gioia, la bellezza della loro città, la tenerezza delle loro amicizie, la salute dei loro figli ….perfino l’abbondanza dei loro raccolti e il clima benigno dei loro cieli, dipendono interamente dall’abominevole infelicità di quel bambino…”.  Se a quel bambino fosse data  un po’ di felicità, gli abitanti di Omelas non godrebbero più di quella gioia e di quella pace.

Anche chi ne rimane disgustato non può far nulla. Conoscono la pietà ma loro come il bambino non sono liberi.  “Scambiare tutto il bene e la grazia di ogni vita di Omelas per quel piccolo unico miglioramento: gettare via la felicità di migliaia di persone per la possibilità di renderne felice una sola….”: questo è il motivo per cui si permette una cosa simile:  “se il bambino venisse portato alla luce del sole, fuori da quel posto fetido, se venisse lavato, nutrito e confortato sarebbe una bella cosa ma in quel giorno e a quell’ora tutta la prosperità, la bellezza e la gioia di Omelas avvizzirebbero e verrebbero annientate. Queste sono le condizioni”. Il silenzio è il complice dell’atrocità. Quella della città felice è una perfezione assoluta che si può raggiungere al prezzo dell’eliminazione dell’imperfetto.  

Alcuni però rifiutano quello stile di vita e “lasciano Omelas, procedono nell’oscurità, e non tornano indietro. Il luogo verso cui si dirigono è un luogo ancora meno immaginabile, per molti di noi, della città della gioia. Non posso descriverlo. E’ possibile che non esista. Ma sembra che loro sappiano dove stanno andando, quelli che si allontanano da Omelas”…….“E voi cosa fareste? Rimarreste o ve ne andreste?”…..

Restate, allontanatevi e incamminatevi

Le condizioni utilitariste – a discapito di un singolo  o di una minoranza –  sono moralmente accettabili se portano un beneficio per tutti gli altri?……La risposta è NO: i  diritti fondamentali dell’uomo  non possono essere violati barattandoli con la produzione di una “città della felicità”; violare i diritti anche di un solo  “innocente” sarebbe ingiusto, pure  se dovesse servire a rendere felice una moltitudine. Eppure esiste ad oggi  la modalità di sacrificare i diritti di una minoranza a favore di una maggioranza. Ogni dittatura ha iniziato così. Le persone con disabilità vivono questa situazione giornalmente con la loro gestione da parte di altri  e l’esclusione aggressiva dal  diritto di  far fronte liberamente, secondo scelta, alle esigenze di vita quotidiana e alle cure. La vera libertà è dire NO ad ogni violazione dei diritti umani.

Se non ritenete sia accettabile la sofferenza anche di un solo uomo in cambio della felicità di un popolo, allora incamminatevi sulla via per allontanarsi da “Omelas” perché l’Italia si sta trasformando in “Omelas”.

Di fronte alle violazioni che vivono una minoranza di persone, rimbombano nelle nostre  orecchie gli slogan (di stile totalitarista camuffati da buonismo) della classe politica che inneggia alla felicità, alla bellezza, alla società civile e al sistema terzo settore come baluardo della ripresa economica. E gli abusi proseguono in modo via via crescente.   Allontanarsi però non è inteso  nel senso di fuggire. Allontanarsi significa incamminarsi rifiutando un certo stile di vita che vede la cattura e l’utilizzo di altri uomini, Significa  impegnarsi  nella lotta affinché le cose cambino. Significa agire con coscienza. 

Ognuno lo deve fare individualmente o con pochi altri che prendono coscienza, perché non ci si può aspettare che il sistema crolli tutto insieme o che la maggioranza possa prendere consapevolezza degli abusi su pochi se la cosa non li tocca o gli porta, al contrario, vantaggi come nel caso pure di mediatori privati di categoria.  Si può decidere  di fare sentire la propria voce e ottenere risultati inaspettati.  Si può decidere di tentare di migliorare la qualità della propria vita, di altre persone con i nostri stessi problemi o quella di qualche persona domani anche  sapendo di giocarsi il tutto e per tutto  e non tornare più indietro.  Si può scoprire che l’uomo comune è il vero grande e nel momento più difficile della sua vita può fare miracoli e lasciare il segno. La memoria non può essere corta.  E’ un segno indelebile che chiama  nella Pasqua della Resurrezione e nel Lunedì dell’ angelo.

Buona Pasqua della Resurrezione e Lunedì dell’ Angelo Custode.

Eleonora Campus   

 
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Pubblicato da su 4 aprile 2015 in Disabilità: Diritti

 

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Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario

Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario

Autore: Eleonora Campus

Con le sentenze 154 – 156 e 157 del 2015, il TAR della Regione Piemonte ha confermato che le “prestazioni socio-sanitarie” domiciliari  (cd. assistenza tutelare) delle “persone non autosufficienti” (cioè con disabilità e non autosufficienza), sono qualificate come Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) ossia, le prestazioni e  i servizi che il Servizio sanitario nazionale (istituito dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833) –  è obbligato a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione cioè, il cd. ticket (cfr. Ministero della Salute). 

Si tratta, nel caso in esame,  delle «prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona» fornite da familiari e da badanti. Le prestazioni comprese nei  LEA dunque, sono un diritto pieno ed immediatamente esigibile da parte degli interessati. La Corte  del Piemonte nel caso specifico, ha accolto i ricorsi  del Comune di Torino (sent. 154 del 2015), di numerosi altri Comuni ed Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali piemontesi (sent. 157 del 2015), ed anche  di alcune associazioni di categoria (sent. 156 del 2015) che,  con le stesse motivazioni, hanno agito contro le delibere n. 25 e 26/2013, n 5/2014 della Giunta Regionale. In particolare il Tribunale ha annullato questi provvedimenti  nella parte ove risultavano lesivi del “diritto esigibile” alle prestazioni socio-sanitarie domiciliari  – in questo caso svolte da persone non professioniste come familiari e badanti perché i provvedimenti non intaccavano quelle svolte da personale tecnico dell’assistenza o infermieri- rivolte a  persone anziane non autosufficienti nei vari momenti della vita quotidiana a casa propria.

L’illegittima posizione della Regione Piemonte – secondo il TAR –  è dovuta al fatto che le delibere di Giunta avrebbero “spostato” anche la quota sanitaria  delle  prestazioni domiciliari, svolte da familiari e badanti e corrisposte attraverso il cd. “assegno di cura”, al settore assistenziale riclassificandole interamente (al 100%) come interventi di tipo socio-assistenziali “extra-LEA” (cioè fuori dei LEA). Di conseguenza, il settore sociale  (Utenti/Comuni) se ne è completamente  fatto carico.

Invece, tutte le  prestazioni  di assistenza tutelare sono definite come LEA dal d.P.C.M del 29 novembre 2001  e, perciò, riguardano un servizio che deve essere  “gestito e coordinato direttamente dal Distretto socio-sanitario delle Aziende Sanitarie Locali in collaborazione con i Comuni”  come disposto  dal d.P.C.M.  del 14 Febbraio 2001 che è  l’Atto di Indirizzo di classificazione delle prestazioni.

Secondo la Corte questi  Livelli, in quanto essenziali, non sono limitabili e l’ erogazione deve essere garantita dal Sevizio Sanitario, a “livelli uniformi”, su tutto il territorio nazionale come stabilito dal  d.lgs, 30 dicembre 1992, n. 502  e dal successivo d,lgs.  n. 229 del 1999 (cd. decreto Bindi che da una spinta alla regionalizzazione) – entrambi di Riforma del SSN –  che sono anche la normativa di riferimento dell’Atto di Indirizzo del 14.02.2001  e del  d.P.C.M. del 29 novembre 2001.  Secondo il TAR attraverso una interpretazione del d.P.C.M del 29 novembre 2001 orientata prima di tutto alla Costituzione e alla salute come “diritto fondamentale  dell’individuo e interesse della collettività” (tutelato dalla Repubblica ai sensi dell’articolo 32 Costituzione rispetto anche al dovere di solidarietà sociale ai sensi dell’art. 2 Cost.),  le prestazioni socio-sanitarie sono diritti che non possono essere negati, neanche in caso di  risorse di bilancio scarse o a fronte del  risanamento del debito sanitario di alcune Regioni in disavanzo (come il Piemonte) cioè,  in una situazione in cui i costi hanno superato le entrate. E’ il Servizio Sanitario Nazionale che ha il compito di rendere effettiva la tutela richiesta dalla Costituzione, attraverso  i LEA definiti dal  Piano Sanitario Nazionale nel rispetto dei “principi della dignità della persona umana, del suo bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze (…)” (come disposto dall’ articolo 1, comma 1 e 2 del d.lgs. n.502 del 1992). 

Riguardo al caso specifico, secondo la Corte la questione centrale è  una corretta interpretazione della nozione di “assistenza tutelare alla persona”, stabilita dal d.P.C.M del 29 novembre 2001  (Allegato 1.C, par.n. 7, lett. e). A nulla infatti vale la motivazione della Regione Piemonte che senza alcuna base normativa ed arbitrariamente non ritiene “tutelare” solo quella fornita da operatori senza specifica qualifica professionale. Il Tribunale ha affermato che questo tipo di  prestazioni socio-sanitarie fornite da personale non professionista  rientrano comunque nei Livelli Essenziali di Assistenza (dunque nella immediata esigibilità) – per la parte importante e non modificabile sia del diritto alla salute che  all’assistenza socio-sanitaria, imposta dalla Costituzione all’art. 32 ed ai sensi dell’art. 117, comma 2. lett. m, Cost.  (principio già affermato  dalla stessa Corte Piemontese con sentenza n. 199 del 2014) –   come indicati con d.P.C.M. 29 novembre 2001Tale decreto con la nozione di “assistenza tutelare” attua la previsione generale  dell’art. 1, comma 6, del d.lgs. n. 502 del 1992  che dispone che l’assistenza sanitaria deve essere e erogata dal Servizio sanitario nazionale  e si svolge negli ambiti dei LEA specificatamente dell’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, dell’assistenza distrettuale e dell’assistenza ospedaliera.

Le sentenze sono importanti perché, basandosi su una precisa normativa Costituzionale e Statale in materia,  nonché su precedenti sentenze del TAR stesso,  danno corpo alla salvaguardia  dell’esigibilità del diritto alle prestazioni socio-sanitarie  contrapponendole  alle «esigenze della finanza pubblica» che non possono portare a schiacciare la parte fondamentale e non modificabile  del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana e del diritto primario ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione. Più dettagliatamente infatti, secondo la Corte, per le “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” ( come anche l’assistenza tutelare)  il riferimento è l’articolo 3-septies, comma 2, lettera b, del d.lgs n.502 del 1992 ai sensi del quale esse comprendono “tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”. Da notare che anche l’emarginazione condiziona lo stato di salute. Dunque,  questo tipo di prestazioni  proprio per la loro natura sociale  ma di importanza sanitaria (la cura della persona, il soddisfacimento dei suoi bisogni primari come alzarsi, lavarsi, vestirsi, andare in bagno, la preparazione e l’aiuto durante i pasti, l’assistenza nei movimenti,  la somministrazione dei farmaci se necessari),  sono  particolarmente adatte sia ai bisogni di cura della persona non autosufficiente (art. 32 Cost.) sia alla salvaguardia della sua dignità in un momento particolarmente difficile della sua vita (cfr. sent. TAR 156 del 2015).

Secondo il giudizio del TAR se l’esecuzione del programma di solidarietà sancito in Costituzione incontra ostacoli di tipo economico-finanziario per l’obiettiva carenza di risorse da stanziare e/o in caso di accordi di rientro da deficit, il rimedio più immediato non è la violazione dei LEA negandoli,  ma è una diversa allocazione delle risorse disponibili (cfr. anche sent. 36/2013 della Corte Costituzionale).   E questo vale  pure per  «le prestazioni di aiuto infermieristico ed assistenza tutelare alla persona» che sono e devono continuare ad essere garantite ed erogate dal SSN o a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa (art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992). Pertanto, il TAR ha stabilito che resta il mantenimento del 50% del loro costo a carico del Servizio sanitario. Spetta alle singole amministrazioni (nel caso in questione alla Regione) predisporre le risorse in modo tale da equilibrare i vari interessi protetti dalla Costituzione che chiedono di essere realizzati  (cfr. TAR Piemonte, sentenza n.199 del 2014 e sentenza 156 del 2015). Inoltre, il  Piemonte ha violato la sua stessa legge Regionale n. 10 del 2010 (servizi domiciliari per le persone non autosufficienti), che include tra le prestazioni di lungo-assistenza croniche, anche le prestazioni non professionali di “assistenza familiare” (cosi come pure alcune delibere di Giunta in vigore). A seguito delle sentenze, la Regione non esprimeva l’intenzione di ricorrere  al Consiglio di Stato contro i giudizi  del TAR,  che annullando le delibere di Giunta Regionale, ha riportato alla titolarità della sanità la metà del pagamento delle prestazioni di aiuto infermieristico e di assistenza tutelare ai non autosufficienti. Tuttavia, successivamente, da alcune fonti è emerso che la Regione non avrebbe mantenuto questa intenzione e pare che ricorrerà contro le sentenze perpetrando – in maniera assolutamente intollerabile – la sua posizione di abuso rispetto al  diritto alle cure socio-sanitarie dei cittadini non autosufficienti (cfr. in Cure domiciliari, la Regione Piemonte frena).  Una grave presa di posizione che antepone motivi di carattere economico – giustificati dall’esigenza di risparmiare – alla vita delle persone, Motivi ancor più scellerati se si pensa che sono proprio le cure domiciliari che permettono di spendere meno rispetto ad altre soluzioni. Dunque la Regione sceglie la via dell’eugenetica laddove non riesce a deportare forzatamente le persone non autosufficienti in strutture volte ad alimentare il sistema?…..Questo è un grave attacco alla vita, alla libertà e al diritto di scelta di alcune categorie di cittadini

Un abuso evitato e una normativa discriminatoria che resta

Tuttavia, a ben vedere il Tribunale evita l’ “ulteriore abuso” dello spostamento totale delle prestazioni di assistenza tutelare al settore sociale perché la metà di questi  costi già non rientrano nella copertura del SSN  e si continua – sulla base di una precisa storia  normativa – ad assoggettarli (al solo scopo di risparmiare) alla non equa contribuzione attraverso l’attribuzione di una percentuale di spesa all’utente o al comune.  

A partire dalla metà degli anni ottanta  infatti, la legge finanziaria del 1984 (Legge 730/83, art. 30) crea lo strumento che permette  questo abuso e cioè, la  specifica area di integrazione socio-sanitaria che comporta un nuovo regime di finanziamento ove riversare   alcune categorie “selezionate” di cittadini. Questa area  vede l’integrazione di risorse sanitarie e sociali perciò, attribuibili ad un ambito integrato e  non ad un ambito di competenze solamente sanitarie o ad un ambito di competenze solamente sociali. E’ decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 agosto 1985 (cd. decreto Craxi che è un atto di indirizzo e coordinamento a cui demandava la legge finanziaria del 1984) che ha il compito di definire  le  “attività di rilievo sanitario connesse con quelle  assistenziali” cioè, quelle per le quali era prevista una quota a carico del servizio sanitario nazionale e non più l’interezza.   Perciò , le Regioni  – a cui il decreto  è rivolto – vengono autorizzate a legittimare una “compartecipazione sanitaria” alla spesa allo scopo  di spostare alcune fasce di utenti (individuate dalle Regioni stesse) dal settore sanitario a quello socio-sanitario rispetto ad alcune  prestazioni  di prevenzione, cura e riabilitazione  fisica e sociale, che fino a quel momento erano state un diritto soggettivo pienamente esigibile perché  a carico delle Unità Sanitarie Locali – ossia le attuali  Aziende Sanitarie Locali –  con risorse totalmente  provenienti  dal  fondo sanitario nazionale.

Il trasferimento al nuovo settore integrato ha riguardato ai sensi del decreto Craxi del 1985:  l’area materno infantile, le persone con handicap,  gli anziani  non autosufficienti, i dementi senili e i malati di Alzheimer, i pazienti psichiatrici. Molti anni dopo, con il  d.P.C.M.  del 14.02.2001 si aggiungono : le persone non autosufficienti con patologie cronico degenerative; i soggetti alcolisti e tossicodipendenti; gli affetti da patologie psichiatriche; gli affetti da patologie da Hiv.  Il Servizio Sanitario mantiene a totale carico solamente i pazienti terminali rispetto alle «prestazioni e trattamenti palliativi in regime ambulatoriale domiciliare, semiresidenziale, residenziale». Con il d.PC.M. del 14.02.2001, si impone ai Comuni  – titolari delle funzioni socio-assistenziali  delle aree territoriali di provenienza degli utenti –  di finanziare  (senza risorse aggiuntive) una parte delle attività  rispetto a queste  tipologie di utenti. Al decreto del 14/02/2001 fa seguito, nel novembre dello stesso anno, il “decreto Sirchia” del 29 novembre 2001 che definisce i “Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria”. Anche questo d.P.C.M. conferma il trasferimento degli utenti all’area di integrazione socio-sanitaria e inserisce alcune prestazioni rigorosamente sanitarie tra quelle “assistenziali” già assoggettate dalla precedente normativa alla contribuzione da parte del cittadino e/o del Comune.

In pericolare, il decreto  del 29 novembre 2001 stabilisce che le spese per “prestazioni di assistenza tutelare” (di interesse del caso del TAR Piemonte) al 50% sono considerate “quota sanitaria” e rientrano nei LEA. Dunque, come ribadito anche dalla Corte Piemontese, tali costi devono essere coperti dalla ASL per l’intera quota in questione  e sono a carico e garantiti dal Servizio Sanitario nazionale (Allegato 1.C, par.n. 7, lett. E). Il restante 50% delle spese, invece, sono considerate “quota sociale” e non rientrano nei LEA. Perciò sono a  carico dell’utente al quale viene richiesto di contribuire, in genere, per tutta la quota detta  e se non ha redditi sufficienti deve intervenire il Comune di residenza sulla base dell’ISEE dell’interessato e con risorse di uno specifico fondo sociale: il  Fondo Non Autosufficienze (FNA). In sostanza, ci si trova di fronte ad una compartecipazione dei costi tra il settore sanitario nazionale (ASL) che per la metà  garantisce le prestazioni a tutti gli aventi diritto, ed il settore sociale a livello locale (utente/Comuni) che per l’altra metà impatta sull’interessato e – ove interviene il Comune – si basa sulle risorse disponibili e sulla discrezionalità dell’Ente nello stabilire l’accesso agli interventi.

Con l’articolo 54 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003) si fa un passo avanti perché sono  confermati i livelli essenziali di assistenza stabiliti dall’articolo 1, comma 6, del d,lgs.  n. 502 del 1992,  ed i due d.P.C.M del 2001 acquistano forza di legge. Grazie alla finanziaria,  le prestazioni socio-sanitarie – per la parte dei LEA –  diventano “diritti soggettivi immediatamente esigibili” di cui godere nei confronti degli Enti Gestori e della ASL di riferimento (come disposto dall’articolo 4, comma 2, del d.P.C.M. 14. 02.2001). Ai sensi del comma 2 dell’art.54 della legge finanziaria 2003,  sulla scorta del secondo  e terzo d.lgs. di riforma del SSN (d.lgs. 502 del 1992 e d.lgs. 229 del 1999), il Servizio Sanitario deve comunque garantire “attraverso le risorse finanziarie pubbliche individuate dal comma 3 e conformemente ai principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n.833” prima legge di istituzione e di riforma del SSN: “i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse”. 

L’esigibilità del diritto, importante e ribadita dal TAR,  è stata però conquistata (o per meglio dire riconquistata) “relativamente” grazie alla  finanziaria del 2003. Infatti,  resta il fatto che l’integrazione socio-sanitaria comporta una  divisione in tre quote degli interventi e mantiene le modalità dello spostamento di parte di queste attività dall’area sanitaria a quella sociale.  Perciò  una parte delle prestazioni si confermano  di natura sanitaria quale diritto esigibile e a carico del Fondo Sanitario Nazionale. Ma una parte continuano ad essere  a carico dell’utente e/o  con un’integrazione è a carico del Comune, senza che la normativa statale (compresa la legge 328 del 2000 di Riforma dell’assistenza)  definisca alcun diritto soggettivo a beneficiarne. Anche se il principio   importante che negare le “prestazioni sociali è discriminazione”  è stato disposto dalla  sentenza di Ascoli  (non senza qualche criticità cfr.  in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”),questa sembra una tutela circoscritta e di altro ambito (quello puramente sociale)  che non deve riguardare le categorie di utenti che  sono state, dal 1985 in poi, man mano e ingiustamente comprese  nell’area di integrazione socio-sanitaria e usufruiscono di tali prestazioni. Un’area costantemente  in bilico tra il legale e l’illegale. 

L’assistenza sociale dunque è un’altra sfera perché è riconosciuta dall’art. 38 della Costituzione alle persone inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere. Ma  inabilità  e mancanza di capacità lavorativa non sono sinonimo di disabilità se pur grave o particolarmente grave e se pur rientrante nella cd. non autosufficienza. E i costi delle prestazioni di aiuto negli atti di vita quotidiana sono accollati e non sopportabili per  tutti per cui, vanno “oltre” i normali mezzi necessari per vivere. Queste prestazioni di assistenza non sono collegabili solo all’indigenza totale. Il riferimento Costituzionale deve essere l’articolo 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute di ognuno ma totalmente, senza frammentarlo (o addirittura disintegrarlo) nell’area sociale definita dall’art. 38 della Costituzione.  

Paradossalmente, anche la legge  di Riforma dell’assistenza 328 del 2000 all’art. 2 comma 3 e 4  da la precedenza   di accesso alle prestazioni a tutti i soggetti che si trovano in condizione di povertà, o con limitato reddito, nonché ai soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali. E sulla povertà e sulle soglie di quello che dovrebbe essere un “limitato reddito” si gioca – attraverso l’iniquo strumento dell’ISEE –  l’ennesima esclusione dei soggetti deboli da prestazioni ed erogazioni volte ad assicurare i  diritti fondamentali. Ma se questo è vero, per capire i processi di esclusione e di abuso avvenuti con la creazione dell’area socio-sanitaria, occorre chiedersi cosa intendiamo per non autosufficienza e chi intendiamo siano i soggetti non autosufficienti.

Cosa è la non autosufficienza e chi sono le persone non autosufficienti

La non autosufficienza non è una condizione  standard: possono rientrarci  persone con esigenze diverse che hanno bisogno di cure per tutto l’arco della vita o che si devono inserire nella vita quotidiana come chiunque altro.  Può dunque riguardare bambini,  giovani, adulti, anziani malati cronici e/o  non autosufficienti, persone con disabilità  fisica, psichica e sensoriale, malati psichiatrici, di Alzheimer, con HIV, oncologici e patologie croniche varie. Sono tutti soggetti  che necessitano di assistenza infermieristica, di prestazioni terapeutiche, fisioterapiche e riabilitative a casa propria  o presso strutture diurne e residenziali ma, hanno bisogno  anche di supporto negli atti di vita quotidiana compreso l’aspetto umano e relazionale verso il mondo esterno.   Tutte queste persone hanno il diritto ad usufruire delle prestazioni di assistenza domiciliare – nella forma da loro scelta ai sensi della Convenzione ONU sulle persone con disabilità – per far fronte ad esigenze fondamentali di vita quotidiana e non soccombere in assenza di supporto. Va da se che per affrontare tali esigenze nessuno deve essere messo in condizione di sopportarne il peso economico (se non classificato come indigente) e di sprofondare a sua volta in povertà estrema.

Gli esclusi parziali e gli esclusi integrali; l’incertezza del diritto, l’arbitrarietà delle valutazioni di accesso alle prestazioni, la competenza sociale come strumento di abuso

In tutte le prestazioni socio-sanitarie elencate nel d.P.C.M. del 29 novembre 2001  – come afferma specificatamente il d.P.C.M. stesso – la componente sanitaria e quella sociale non  risultano  operativamente distinguibili tra loro.   Perciò,  le prestazioni sociali richiamate nei Lea devono essere  considerate unitamente sia  con quelle sanitarie che con quelle  socio-sanitarie. La competenza  degli interventi stabiliti dal decreto 29 novembre 2001 è dunque sanitaria comprese le prestazioni socio-sanitarie che con l’approvazione dell’articolo 54 della legge 289/2002 rientrano,  conformemente alla  legge, tra i Livelli essenziali (come da allegato 3, lettera d del decreto 2001) che il Servizio sanitario è obbligato  a garantire.

Eppure si continua a mantenere il sistema della compartecipazione  tra il Servizio Sanitario Nazionale e l’area sociale su base locale  secondo una logica di risparmio economico a danno degli Utenti e/o Comuni.  Non solo: le  prestazioni  assistenziali di natura diretta, indiretta e di vita indipendente – rivolte a persone con gravi disabilità e/o non autosufficienza – che dovrebbero rientrare nella nozione di “assistenza tutelare” (e dunque nelle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale)  ne sono invece alcune volte  escluse arbitrariamente in contraddizione con la normativa nazionale che vale per tutte le persone con disabilità e/o non autosufficienti, nonché per i malati e per tutte la fasce di età. Queste sono attività che se non supportate, addirittura, lascerebbero la persona non solo emarginata ma anche in uno stato di completo “abbandono” con un degrado fisico e psichico della persona in violazione dei più elementari diritti. Pertanto, riconducono al benessere fisico e psichico della persona. Si fa fatica in generale  a definire attività di questo tipo  “sociali” già per la pesante parte a carico  degli Utenti e/o Comuni rispetto all’area integrata socio-sanitaria che è quella ove – almeno in parte –  si può utilizzare il concetto dei LEA. Figuriamoci se come nel caso dell’assistenza diretta, indiretta e della vita indipendente queste sono – a volte – discrezionalmente  considerate e scaricate interamente nel settore sociale  e dunque rimesse alle risorse disponibili – derivanti dal Fondo Sociale Nazionale non autosufficienze istituito dalla legge finanziaria 2007 (legge 296 del 2006, articolo 1, commi 1264 e 1265) – dell’Ente Gestore delle Funzioni Assistenziali (Comune). Oltretutto,  il Fondo Sanitario Nazionale non autosufficienze è aggiuntivo e complementare alle risorse  già destinate dal Fondo sanitario Nazionale agli interventi  a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni e delle autonomie locali.  Il FNA    dunque,  non  sostituisce quello sanitario nazionale ma lo integra, è più ridotto e destinato esclusivamente ai Comuni per  coprire   i costi di “rilevanza sociale” dell’assistenza socio-sanitaria ma  pure le prestazioni accollate indebitamente in maniera totale ai Comuni!  (cfr.  art. 2, comma 2 del decreto interministeriale di riparto del 12 ottobre 2007). Si tratta poi di un Fondo non strutturale e per il quale ogni anno non c’è certezza di riconferma.

Inoltre, al fine di quantificare la prevalenza sanitaria o sociale di questi interventi, i soggetti interessati  alle prestazioni di assistenza sono sottoposti alla verifica della loro percentuale di “gravità” da parte di apposite  Commissioni. Perciò, la compartecipazione del SSN  è  garantita   ai soggetti  con disabilità  “grave” o di “particolare gravità”  riconosciuta ai sensi della Legge n. 104/92 art. 3 co e valutati come “gravi” da parte di queste unità multidisciplinari  ai sensi dell’art. 4 della legge 104/92 e tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 19 della legge 104/92. La Commissione multidisciplinare (sociale e sanitaria) a sua discrezione può considerare l’assistenza diretta, indiretta e di vita indipendente con carico suddiviso tra ASL e Comune – come tutte le prestazioni socio-sanitarie di assistenza tutelare –  così come invece,  completamente a carico del Comune valutandole in regime socio assistenziale …….E nella realtà troppo spesso purtroppo, si arriva a non riconoscere in alcun  modo entro i LEA l’assistenza diretta, indiretta e di vita indipendente perché viste   esclusivamente – e illegittimamente – come un problema sociale.  Solo per le prestazioni degli utenti classificati “gravissimi” c’è la certezza dell’erogazione diretta  della Regione in regime  socio sanitario.   Le Regioni applicano le forme di assistenza secondo norme e regolamentazioni proprie.

Evidentemente il concetto di “gravissimi” lo si fonda sulla categoria  “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria (sulla scia di quanto disposto dai due decreti di Riforma del SSN: d.lgs. 502 del 1992d.lgs. del 1999) di fase “intensiva” di competenza soprattutto sanitaria perché comportano un impegno riabilitativo  specialistico di tipo diagnostico e terapeutico, di elevata complessità,  di durata breve e definita. Le  modalità operative sono residenziali, semiresidenziali, ambulatoriali e domiciliari. In particolare,   il decreto Bindi del 1999 nell’ambito “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria individua anche quelle in fase “estensiva”  che comportano una presa in carico specifica per un periodo medio-lungo prestabilito perciò, anche se l’ impegno terapeutico è minore, sono anch’esse di competenza maggiormente sanitaria.  Mentre nel tipo di “lungo assistenza” prevale – discutibilmente – la “competenza sociale” perché l’intervento è visto come volto a favorire la vita sociale attraverso il mantenimento della migliore autonomia funzionale possibile e il rallentamento del suo degenerare. Comunque negli obiettivi del decreto, tutti questi tipi di interventi  sono rivolti a soggetti “di particolare gravità” al fine di garantirgli il diritto ad essere curati attraverso  risposte celeri e certezza del finanziamento (per la parte coperta dal SSN che deve rientrare nei LEA) della prestazione.

Dai decreti di Riforma del SSN ai d.P.C.M. di attuazione: l’evidenza normativa dell’illegittimità dell’esclusione totale attraverso la deportazione totale all’area socio-assistenziale e l’esclusione parziale che resta

Oltre alla nuova categoria delle prestazioni socio-sanitarie di elevata intensità, in generale il decreto Bindi ripuntualizza la categoria delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” (nate con il decreto Craxi del 1985) – ossia  le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite –   di competenza prevalentemente sanitaria e a carico della ASL. Altresì definisce  anche la categoria  delle “prestazioni sociali a rilievo sanitario” cioè “le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”  la cui competenza è soprattutto sociale e dunque  richiedono un maggiore impegno dei Comuni (Enti gestori delle funzioni socio assistenziali) con compartecipazione da parte dell’utente  e minori costi per le Aziende Sanitarie (SSN) .

E’ da notare che in nessuna delle categorizzazioni del decreto si evidenzia un’ ipotesi a completo carico dell’area sociale omettendo del tutto il SSN:  al massimo, si arriva ad ipotizzare una prevalenza di carico di un’area rispetto all’altra.  Oltretutto, le attività specifiche delle “aree materno infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da H.I.V. e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico degenerative rientrano nelle “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria di livello “intensivo” o “estensivo” e dunque, il carico deve gravare maggiormente sul Servizio Sanitario Nazionale”. Inoltre, l’art. 1 del d.lgs. n. 229 del 1999 (che sostituisce Il comma 7 dell.’art.1 del d.lgs. n. 502 del 1992)  fa rientrare nel concetto di assistenza sanitaria i servizi e le prestazioni sanitarie che hanno, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, certezze scientifiche di un significativo beneficio  rispetto alla  salute, a livello individuale o collettivo, anche quando le  risorse impiegate per garantire i livelli essenziali e uniformi di assistenza  risultano enormi.  

A seguire invece, in  attuazione di quanto previsto dai decreti legislativi di Riforma 502/92 e 229/99,   i  d.P.C.M. 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie) e d.P.C.M. 29 novembre  2001 (Definizione dei LEA) – all’elencazione delle loro Tabelle allegate  – hanno scaricato addosso agli Utenti e/o Comuni il peso eccessivo di tutta una serie di prestazioni che (come disposto nelle categorie del decreto Bindi) dovevano rientrare maggiormente nei LEA e derivare dal Fondo Sanitario Nazionale. La parte sociale richiamata nei LEA dal decreto del 29 novembre 2001 – come già detto e anche guardando estensivamente a  seguito della finanziaria 2003 – deve essere considerata non scissa ma unitamente alle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie. In questo senso, è interessante notare anche che il d.P.C.M 14.02.2001  (riferimento normativo fondamentale del   d.P.C.M  29/11/2001 come specificato all’allegato 3, lt. d e riletto alla luce della finanziaria 2003) assegna e mette a carico delle ASL l’insieme delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”, dunque, si può dedurre,  anche quelle non caratterizzate  da elevata integrazione. Inoltre, questi interventi sono personalizzati, di durata medio/lunga e sono erogati in vari regimi tra i quali risulta anche quello domiciliare (oltre a quello ambulatoriale, o nelle strutture residenziali e semiresidenziali).

Quell’esigibilità “completa” dei diritti da riconquistare che non ammette “carenza di motivazione”

Da quanto detto finora, appare evidente che,  dal 1985 in poi,  sono state “selezionate” alcune categorie di persone sottraendogli il pieno godimento di diritti umani fondamentali attraverso la “deportazione” in un’area “appositamente” creata che di fatto ha solo creato nel tempo esclusioni parziali o totali dalla protezione Costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 32 (diritto alla salute) e dalle garanzie rivolte a tutti i cittadini dalla legge 833 del 1978 (prima Riforma del SSN e sua Istituzione).

La politica e le esigenze di risparmio economico hanno prevalso sui diritti innati e sacrosanti di alcuni. La divisione delle competenze tra Stato, Regioni e Comuni ha favorito solo confusione, mano libera negli abusi, e lo scaricare le esigenze vitali delle persone più fragili dagli uni agli altri, affidandole il più delle volte  a fondi incerti, esigui e discrezionali. Di fatto – inconsapevolmente per gli interessati – tutto questo è avvenuto pian piano, quasi silenziosamente. Una vera e propria strategia di soppressione dei più deboli e di espulsione dai diritti attraverso una “selezione” che non possiamo permettere e che con la memoria riporta a tempi bui dove alcune persone erano considerate indegne di vivere.

Non dobbiamo dimenticare che prima del 1985, le categorie interessate da quella che è stata una deportazione in un limbo infame (e non un trasferimento ad un’utile  area delle prestazioni) avevano la piena esigibilità dei diritti successivamente frammentati e negati parzialmente o totalmente. Dunque, le prestazioni socio-sanitarie devono essere diritti da garantire completamente perché collegati ad esigenze vitali elementari di alcune fasce di persone deboli e discriminate perché selezionate appositamente al solo fine di contenere la spesa. E come si è visto finora (secondo anche quanto ribadito dai TAR e dalla Corte Costituzionale) le politiche di risparmio non possono comprimere i diritti umani.

Occorre riprendersi  i diritti sottratti a volte con una parvenza legittima ma discutibile, altre volte invece  in modo sfacciatamente illegittimo. A questo proposito potrebbe raggiungere lo scopo un’azione collettiva – così come avvenuto già con i ricorsi contro il nuovo ISEE – tenendo conto di quanto ricostruito finora in questo articolo per acquisire coscienza degli abusi che ci sono stati e tutt’ora ci sono, nonché della deriva che si potrebbe raggiungere se si continuerà ad accettare passivi tutto questo. Si tratta di  un argomento che riguarda tutti perché come visto, la non autosufficienza e le situazioni di gravità o malattia riguarda una gran quantità e varietà di persone. Di fatto tutte le categorie selezionate sono chiamate in causa – nessuno se ne può tirar fuori – perché tutte sono state deportate nell’area di abuso escludendole dalle tutele  vuoi parzialmente, vuoi totalmente.

Prima di scrivere questo articolo – frutto della lettura delle sentenze Piemontesi ed anche  di un lavoro di ricerca nonché di riflessione – ero un po’ titubante se procedere o meno. Mi sembrava un lavoro superfluo e che non avrei potuto dare molto di più di quello che già si “sapeva”. Poi ho iniziato ad ascoltare alcune testimonianze dirette dalle quali sono emerse le situazioni reali di abuso (storie di singoli) e una certa confusione nel capire se la propria esigenza rientrava in questa o quella legge oppure in questo o quell’altro tipo di assistenza. Questa mancanza di consapevolezza mi sembrava assurda e ingiusta perché le persone si trovano catapultate e schiacciate  nelle pressanti esigenze di vita quotidiana e negli iter burocratici. Le leggi se le ritrovano addosso con tutto il loro impatto negativo e nessuno ha interesse a spiegare –  o è meglio dire che  forse più di qualcuno ha interesse che gli interessati continuino a ignorare – come sono arrivati  a quel tipo di situazione e se davvero nulla si può fare per contrastare certi tipi di abusi. Partendo dalle sentenze Piemontesi e procedendo sistematicamente con una ricostruzione normativa e storica, penso che si può comprendere meglio e agire in giudizio  collettivamente per far si che le cose cambino.

Augurandomi semplicemente di essere stata – un minimo –  utile affinché molti possano prendere il coraggio e la consapevolezza di lottare per riconquistare i diritti sottratti.  

Eleonora Campus

Aggiornato in data 23 aprile 2015

 

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Disabilità e Costituzione: siamo attori, mai più spettatori!

Disabilità e Costituzione: siamo attori, mai più spettatori!

autore: Eleonora Campus

I tre ricorsi accolti dal TAR del Lazio contro il nuovo ISEE, sono il risultato dello sforzo delle persone con disabilità e famiglie che si sono messe in gioco senza timore. Chi ha fatto quel decreto non ha il consenso della maggioranza dei diretti interessati. E l’intermediazione è avvenuta solo con i rappresentanti di gruppi privati che non rappresentano tutti.  Da notare che l’impegno di pochi ha permesso di raggiungere risultati per tutti e questo dovrebbe insegnare molto per il futuro. Prendiamoci la nostra voce, i nostri diritti e la nostra capacità di agire in prima persona. 

In un Paese dove la corruzione è la regola, dove la politica non ascolta tutti i cittadini ma solo i rappresentanti di gruppi lobbistici che a volte usano il loro ruolo per arrivare ad incarichi pubblici senza titolo o merito alcuno, dove il malaffare è giustificato per non destabilizzare il sistema esistente……

RICORDATE che siamo noi gli attori e non gli spettatori. Siamo soggetti non oggetti. Ascoltiamo alcune voci dal passato che ancora denunciano, ci chiamano a “fare” e ad “essere”…e ci dicono che la Costituzione siamo noi ….ma quante cose ci ricorda Calamandrei….e quanto sono attuali. Leggetele di seguito e fatele VOSTRE. 

Piero Calamandrei

Discorso sulla Costituzione. Milano, 26 gennaio 1955

L’art. 34 della Costituzione dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»…….Eh!…… E se non hanno mezzi? …

Allora nella nostra costituzione c’è un altro articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al tramonto, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi……. L’articolo 3 dice così: «E compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo……….Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo della Costituzione – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla realtà.  Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società. 

E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!

È stato detto giustamente che le costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se nascosta dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica.

Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente negate. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.

Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» riconosce con questo che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli.

Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.

Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sconvolge violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della società.

Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.

Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferenza politica che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani.

«La politica è una brutta cosa», «che me ne importa della politica»: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: «Ma siamo in pericolo?», e questo dice: «Se continua questo mare, il bastimento tra mezz’ora affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento affonda!». Quello dice: «Che me ne importa, non è mica mio!». Questo è l’indifferenza alla politica.

È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi di politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa.

Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità d’uomo.

Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946: questo popolo che da 25 anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori – il caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo – io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.

Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora, vedete – io ho poco altro da dirvi –, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane.

Quando io leggo, nell’art. 2 della Costituzione «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»;

o quando leggo, nell’art. 11 «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini;

o quando io leggo, nell’art. 8 «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour;

o quando io leggo, nell’art. 5 «la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo;

o quando, nell’art. 52 io leggo, a proposito delle forze armate, «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popolo, ma questo è Garibaldi;

e quando leggo, all’art. 27 «non è ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani.

Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.

Quindi, quando vi ho detto che questa – la Costituzione – è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione”.

Eleonora Campus

 
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Pubblicato da su 21 febbraio 2015 in Disabilità: Diritti

 

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