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Mettete le ali: il diritto e il danno alla libertà è realtà

Mettete le ali: il diritto e il danno alla libertà è realtà

Autore: Eleonora Campus

La sentenza 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo ha catturato la mia attenzione. Si tratta di un giudizio importante perché per la prima volta è stato riconosciuto che in caso di tagli alle prestazioni di assistenza ad  una persona con disabilità,  gli Enti devono  risarcirla per   “danno esistenziale” prima ancora che per  “danno biologico” cioè quello che lede la sfera psico-fisica della persona.  Ma allora cosa è questo danno esistenziale e perché è tanto importante soprattutto per le persone con disabilità?

1.1. Le persone con disabilità e il diritto all’esistenza: le capacità, le attività e la personalità

Il danno esistenziale rientra nei diritti della persona umana tutelati  dalla Costituzione ed  è la lesione del diritto al libero svolgimento e alla possibilità  di ampliare  ogni attività umana. Più precisamente si dice che è il diritto al “dispiegamento” di ogni attività umana. Il termine “dispiegarsi”  mi piace molto di più:   mi fa pensare a un gabbiano che “allarga” le ali e che vola libero.   Inoltre, questo tipo di danno è anche la lesione alla libera espressione  della personalità di ognuno.

Riconoscere il diritto all’assistenza  come un  diritto che se violato rientra nel  risarcimento del danno (non patrimoniale)  di tipo esistenziale (sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo), significa stabilire che questo danno incide su valori costituzionali strettamente legati alla libertà individuale di “fare” (dispiegamento delle proprie attività)  e di “essere” (espressione della propria personalità)Significa, perciò,  rendere concreto un cambio di modello che sposta   l’attenzione proprio sulla libertà individuale come valore sociale e fondamento della qualità della vita di ognuno che secondo le proprie capacità (intrinseche e diverse in ogni persona) sceglie come preferisce vivere. E dato che tutto questo è la base  della Convenzione Onu delle persone con disabilità (ratificata in Italia con legge 18 del 2009), attraverso le Corti  si può iniziare a rendere effettivo il “diritto alla libertà individuale” e a ripensare in  concreto a quelli che devono essere i diritti umani fondamentali di ogni persona.

Si può senza dubbio  premettere che rispetto alle persone con disabilità, almeno in parte, la  sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo  ci parla di vita, di libertà, di diritto all’assistenza, e di capacità (compresa quella di  lavorare).

Vediamone allora i punti di forza ed  i molti spunti che vi ho intravisto oltre all’aspetto principale ed  importante del risarcimento per danno all’esistenza che, in altre parole, consiste in un vero e proprio sconvolgimento degli equilibri della vita di una persona. Ma osserviamone   anche i punti di debolezza che comunque  rimandano a sentenze successive (vedi sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013 del Tribunale Civile di Ascoli Piceno; vedi sentt. n.  154-156-157 del 2015 TAR Piemonte) ove appaiono affrontati e in parte meglio chiariti se pur con contraddizioni e punti non risolti come  ho evidenziato negli articoli “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia” e cfr. in   “Assistenza domiciliare professionale: un diritto garantito a metà e non sempre”.  Pertanto, è significativo riprendere questa sentenza ad oggi e rianalizzarla guardando indietro ed in avanti.

1.2 Il caso

Nell’ottobre 2011, un uomo affetto da tetraplegia ha impugnato un provvedimento dell’Assessorato siciliano alla Salute attraverso il quale si stabilivano sia i criteri per l’assegnazione dei contributi per l’assistenza alle persone con disabilità grave, sia  i provvedimenti temporanei a riguardo poiché, tutti questi atti, lo escludevano dalla possibilità di ricevere qualunque tipo di erogazione.  L’uomo non aveva  ricevuto né comunicazioni, né altri contributi da parte della Pubblica Amministrazione (PA). Perciò si era rivolto al Tribunale, che – con sentenza parziale n. 1881 del 27.10.2011 –  accoglieva  l’illegittimità del comportamento della Pubblica Amministrazione la quale, non provvedendo a pronunciarsi rispetto alle richieste dell’interessato (cd. silenzio inadempimento della PA),  era venuta meno ad un preciso obbligo di legge. 

Di conseguenza, la Corte  aveva ordinato all’amministrazione regionale e al comune di provvedere a concludere entro venti giorni il procedimento di determinazione ed erogazione di quanto dovuto al ricorrente. Secondo il Tribunale l’enorme ritardo derivato dal comportamento degli Enti Locali nell’erogazione del contributo legato all’assistenza individuale dell’uomo,  è un danno (non patrimoniale)  biologico (cioè alla salute)  che  questi devono  risarcire  (ai sensi dell’art. 31 del d.lgs. n. 104 del 2010).  

Ma, ancor più importante, è che  la  sezione TAR  di Palermo ha anche  disposto che  se alle persone con  grave disabilità gli enti locali tagliano la prestazione dell’assistenza domiciliare che è un diritto minimo indispensabile e importante,  ci si trova di fronte a una vera e propria  «riduzione indebita» (quindi un abuso).  e il risarcimento lo devono dare  anche per aver cagionato  «un danno (non patrimoniale) esistenziale» che, come già detto precedentemente, è la lesione della libertà individuale di “fare” e di “essere” . Dunque,  si tratta di un danno che incide su diritti fondamentali inviolabili che vanno “oltre” e sono “diversi” dalla sfera della salute tradizionalmente intesa. Vediamo di seguito quali sono questi diritti, le norme a loro tutela e le motivazioni del TAR.

1.3 L’importanza del risarcimento per danno esistenziale

L’obbligatorietà per la Pubblica Amministrazione al risarcimento del danno esistenziale a causa del suo “comportamento inadempiente”,  costituisce un precedente importante perché  (nonostante la somma ammonti a soli 10mila euro, dei quali  5mila a carico della Regione e 5mila a carico del Comune palermitano) la Corte ha  riconosciuto che questo ha comportato  l’incidenza sui “diritti costituzionali inviolabili della persona”  (in questo caso con disabilità) come anche, continua la Corte,  su quelli “della salute e della dignità umana del disabile” (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).  

Nello specifico dal grave quadro clinico dell’uomo,  attestato da una  certificazione medica prodotta dallo stesso,  emerge chiaramente che la drastica riduzione dell’assistenza domiciliare da un lato ha inciso sul suo stato di salute  cagionandogli  un danno psico-fisico (con il manifestarsi di depressione e lesioni da decubito). Dunque,  ci si trova di fronte al cd. “danno biologico” che è  la lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità fisica  e psichica della persona e  che comporta  anche una compromissione delle attività vitali del soggetto. Dall’altro lato, però,  tale certificazione mostra che questo tipo di danno – che pure c’è stato – è minimo rispetto alla maggiore compromissione sia dell’aspetto relazionale/esistenziale della vita del ricorrente che  di quello  delle sue “normali attività realizzatrici” e cioè, di tutte quelle attività pratiche (del fare) e  di relazione con gli altri (possibilità di essere se stessi esprimendo la propria personalità nonché socialità) in cui  ogni persona nella vita quotidiana  realizza se stessa. In altre parole, si tratta di tutte quelle normali attività giornaliere che la persona vorrebbe fare ma che alcuni (come le persone con disabilità e in questo caso il ricorrente)  a causa della propria  condizione  non ce la fanno a fare. Riducendo indebitamente e drasticamente le prestazioni di assistenza dunque, la Pubblica Amministrazione ha compromesso e di fatto negato  all’uomo la possibilità di compiere le proprie “attività realizzatrici” nella sfera della propria esistenza. Ne è conseguita per l’interessato  una “sofferenza morale” “inevitabilmente collegata a tutto questo” (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).

Per tale motivo la Corte ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del  cd. “danno esistenziale” in misura anche maggiore di quello “biologico” che invece è collegato al tradizionale concetto del “diritto alla salute” sotto l’aspetto psico-fisico se pur prevede che ci debba essere anche una compromissione “attività vitali” perché sussista.

Ma a  ben vedere anche lo sconvolgimento della vita quotidiana di una persona e la collegata sofferenza morale, da cui deriva il danno esistenziale, non è forse qualcosa che coinvolge comunque la salute di una persona intesa in senso più ampio….? ……Si può allora affermare che la libertà individuale di  “fare” e di “essere”  coinvolge la persona in un tutt’uno …?…La riposta è si: occorre uscire dall’ottica ingannevole della scissione di ogni aspetto corporale, psichico, esistenziale e relazionale della persona. Anche l’emarginazione condiziona lo stato di salute.  Questa  separazione non è altro che uno  strumento (i classici tagli lineari alle prestazioni rivolte alle persone con disabilità) per negare  il diritto alla libertà individuale – e dunque il diritto alla libera scelta – delle persone rispetto a tutto ciò riguarda la preferenza di come, dove e con chi  vivere la propria vita.

1.4. L’importanza “fondamentale” delle prestazioni assistenziali e l’inversione dell’obbligo di provare l’abuso

La Corte, come già detto in precedenza,  ha stabilito la  compromissione sia della sfera psico-fisica del ricorrente che di quella di tutte le attività che lo stesso avrebbe voluto  svolgere nella sua vita quotidiana. Tale conclusione è avvenuta non solo per “presunzione” ma anche sulla base di una certificazione medica prodotta dall’interessato proprio  per  «l’importanza fondamentale» delle prestazioni assistenziali  volte a  garantire «la salute psichica» dell’uomo e «il mantenimento di un livello accettabile di integrazione sociale»  (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).

Il riconoscimento anche del danno esistenziale  quindi,  è importante perché dimostra che quando si parla di assistenza si toccano una moltitudine di aspetti della vita della persona. Non si tratta “solo” di un  “diritto all’assistenza”in se e per se ma si stabilisce che  la mancanza di  finanziamenti pubblici destinati a  garantire la “vita” e “l’indipendenza”  di una persona con disabilità grave, incide “sui diritti costituzionali inviolabili della persona”, compresa la sua dignità,  perché volti ad  un servizio pubblico essenziale  per la sua esistenza in senso ampio.

Inoltre,  la Corte sulla base degli elementi acquisiti agli atti  – come anticipato sia “avvalendosi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni” ma anche sui documenti concreti come la certificazione medica , le testimonianze ecc –   ha “motivatamente ritenuto” non necessario disporre l’accertamento medico legale a fondamento della sua decisione   (sulla base della Cassazione Civile, SSUU, 11.11.2008 n. 26972 e della  Cass. Civ., Sez. III, 20.9.2010, n. 19851)     per la quantificazione del danno biologico comprensivo anche del danno esistenziale  e dunque, di quello morale e da lesione  delle “attività realizzatrici”della persona. 

Se è indubbiamente importante che la facoltà del Giudice di non ricorrere al medico legale significa non gravare il ricorrente di un peso rispetto al dover ulteriormente provare la sua posizione, vorrei comunque  fare una riflessione. L’uomo con disabilità nell’intentare il giudizio,  ha dovuto seguire  il principio giuridico generale secondo il quale chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire le prove per l’esistenza del fatto stesso. Il ricorrente ha perciò dovuto sopportare a monte  il peso della prova  producendo una dettagliata certificazione medica ospedaliera sia sul  suo stato di salute (psico-fisico) nonché sui  suoi equilibri esistenziali. In aggiunta, l’interessato ha  anche fornito testimonianze a supporto di quanto documentato e di quanto dichiarato.  A seguito di tutto quanto acquisito, come già accennato, il Giudice ha preso la sua decisione poggiandosi sul principio della “presunzione relativa” di responsabilità (in questo caso della Pubblica Amministrazione)  –  rispetto al danno cagionato all’uomo –  attraverso il quale si inverte l’onere della prova.  Questo vuol dire che la persona con disabilità non ha dovuto provare ulteriormente il fondamento della sua pretesa (infatti come già detto  il Tribunale ha ritenuto fosse superfluo  un accertamento medico legale in tal senso) e che si “inverte” la posizione probatoria dando alla controparte (in questo caso l’Ente Pubblico)  la possibilità  di “provare il  contrario”  (art. 2728 c.c.) e cioè, di non aver commesso omissioni  e cagionato il danno biologico ed esistenziale.  In tal modo si è vuole  raggiungere una condizione di  “equilibrio” tra le parti in contraddittorio.

Innanzitutto, quando si parla di casi che coinvolgono così ampiamente tutti gli aspetti della vita di una persona,  l’”equilibrio” tra le parti sembra difficile da accettare se la controparte è una Pubblica Amministrazione dominante che attraverso un comportamento omissivo ha sconvolto la vita di una persona bisognosa di supporto. Inoltre, tutte le prove e le testimonianze che l’uomo ha dovuto fornire, sono ancora una volta la dimostrazione che le persone con disabilità sono continuamente e vessatoriamente sottoposte al peso della prova  per tutto l’arco della vita e (come se fosse la prima volta o come se ci si trovasse di fronte al cd. falso invalido che tanto piace menzionare all’informazione di propaganda) attraverso accertamenti e riaccertamenti.  Quindi, il ricorrente (a mio parere) ha dovuto dimostrare “ancora una volta” qualcosa che invece avrebbe dovuto essere noto, anche perché le prestazioni sono erogate da quella Pubblica Amministrazione che dovrebbe avere la sua storia clinica e personale.

Tornando agli elementi acquisiti comunque, la Corte ha con ogni evidenza potuto appurare sia la sussistenza di un danno che del nesso di causalità tra esso e la condotta illegittima (cioè il ritardo) della PA.

1.5 L’esistenza del “non autosufficiente”: alcuni passaggi importanti dalla Sentenza Palermitana anche  alla luce di sentenze successive di altri Tribunali. Dal superamento del tradizionale concetto di malattia alla capacità lavorativa

Come già scritto precedentemente, dalla certificazione medica prodotta dal ricorrente,  il TAR ha potuto verificare  la sua grave condizione. In particolare, che  l’uomo dipende completamente da persone esterne, ha bisogno di assistenza continua e specializzata per la cura personale, la terapia riabilitativa, il suo posizionamento nella sedia a rotelle o a letto, così come per lo svolgimento di tutte le attività quotidiane o delle attività lavorative. Ma nel documento è anche dettagliatamente  attestata la ripercussione psico-fisica e  lo stato di sofferenza morale a cui è stato sottoposto. Si legge: “dal gennaio 2011 il paziente non ha potuto usufruire di un adeguato livello di assistenza, con marcate ripercussioni sul suo stato di salute fisico e psichico. In atto, il paziente presenta un disturbo depressivo relativo alla situazione di stress personale, familiare a lavorativo, con marcata retroattività ansiosa, cioè effetto dell’ansia anche in un tempo precedente a quando si verifica un fatto, fenomeni di somatizzazione, irritabilità e “labilità emotiva” (ossia, ogni minima emozione turba profondamente il paziente) e grave deflessione (cioè deviazione) del tono dell’umore con ideazione di rovina e tendenza al pianto (vale a dire, senso catastrofe). Altresì il paziente presenta complicanze legate all’immobilità e al non adeguato mantenimento delle posture e della posizione in carrozzina, quali lesioni da decubito di II grado in serie sacrale e al livello delle prominenze ossee delle mani” (cfr sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).

Partendo dalla certificazione medica e guardando alla decisione della Corte  di Palermo, troviamo  un’ aspetto che verrà riconosciuto successivamente dal Tribunale Civile di Ascoli Piceno con sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013: il risarcimento deve coprire la sfera economica, fisica e morale della persona laddove la decisione degli Enti Pubblici ha avuto un impatto patologico sulla sfera psico-fisica e morale della persona.  La sentenza del 2014 del Tribunale Marchigiano poi, riconosce specificatamente il “risarcimento per stress” e collega questo impatto negativo psico-fisico  alla mancata erogazione di un particolare tipo di assistenza,  quella indiretta,  fornita attraverso una persona scelta dell’interessato.  In quel caso però parliamo di servizi rientranti nell’area sociale e, dunque, non garantiti in modo uniforme su territorio nazionale. Perciò l’importanza della sentenza marchigiana sta nel fatto che,  più  in generale, Il Tribunale di Ascoli ha riconosciuto la presenza di una discriminazione (rendendo effettiva la legge 67/2006 che tutela le persone con disabilità in tal senso) ogni volta che all’interessato non vengano erogati dei “servizi sociali” rispondenti alle sue specifiche esigenze.

Nonostante le criticità di questa sentenza (già evidenziate cfr. in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”, partendo da quella di Palermo e collegandole, appare evidente ancor di più che la persona è un’unica entità che comprende psiche (anima per chi crede) e corpo.  Aspetti che interagiscono tra loro. Dunque la disabilità deve essere sganciata dal classico concetto di “malattia” ma ampliarsi ad altre sfere che riguardano aspetti dell’esistenza della persona, della sua sfera psico-fisica  fino ad arrivare ad una vera e propria discriminazione oltre al danno (vedi sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013 Tribunale Civile di Ascoli e sent. 154-156-157 Tar Piemonte del 2015). E il venir meno di certe prestazioni, come quelle assistenziali, crea delle problematiche che vanno ben oltre il semplice “diritto all’assistenza”: ce lo dicono proprio le sentenze delle Corti nei vari casi di specie affrontati.

Ma allora, sorge una domanda: se il concetto di salute è ampio,  prende di nuovo corpo l’idea  che “queste prestazioni non devono essere sacrificate da politiche di bilancio” come stabilito dal Tribunale Civile di Ascoli con la sent. del 2014 e dal TAR della Regione Piemonte con le sentt.  del 2015 (crf. in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”  e cfr. in  “Assistenza domiciliare professionale: un diritto garantito a metà e non sempre”). 

Tuttavia,  mentre la sent. del Tribunale marchigiano  ha delle ombre e non   obietta il fatto che le prestazioni assistenziali derivano dall’area sociale di competenza degli Enti Locali, con il  TAR Piemontese si fa un ulteriore passo avanti perché, seppure il giudizio finale  rientra nei limiti di una normativa nazionale che nel tempo  ha già  indebolito la garanzia  di questi diritti fondamentali,  si riapre e affronta la questione che  gli interventi assistenziali devono essere garantiti dal servizio sanitario nazionale (LEA: Livelli Essenziali delle Prestazioni) e non rimessi alla discrezionalità degli Enti locali (cfr. in  “Assistenza domiciliare professionale: un diritto garantito a metà e non sempre).

Tornando al giudizio del TAR di Palermo:  che il tradizionale concetto di malattia “può” e “deve” essere superato ce lo dice un altro passaggio del certificato medico prodotto dal ricorrente. Nel documento si attesta che tra le attività di vita dell’interessato, è stata compromessa anche quella “lavorativa”. Confermare ciò a livello giuridico è un passo importantissimo. Della circostanza che l’uomo lavorasse poi, la Corte ha acquisito anche l’elemento delle testimonianze. Dunque, il punto fondamentale è: l’incapacità di una persona di compiere autonomamente atti di vita quotidiana, anche nei casi più gravi non può essere collegata necessariamente a un’ estesa e blindata  “incapacità lavorativa”.

Il pregiudizio può essere superato ricordando all’infinito  che la persona con disabilità non rientra in un modello standard . Nella tipologia delle persone cd. non autosufficienti rientrano persone con esigenze diverse che hanno bisogno di cure per tutto l’arco della vita o che si devono inserire nella vita quotidiana come chiunque altro. L’unica cosa che le accomuna è che tutte hanno bisogno di supporto nella vita quotidiana – ognuno per la sua specifica esigenza – compreso l’uscire di casa, non restare segregati, e  coltivare l’aspetto umano e relazionale verso il modo esterno nonché raggiungere e vivere il proprio ambiente lavorativo per chi può far conto su tale capacità anche in situazioni considerate gravi per altri aspetti. Nel caso specifico il ricorrente è laureato (nella sentenza stessa viene definito Dott.) e ha messo ha frutto la sua risorsa immateriale (supportato dagli ausili giusti che la tecnologia mette a disposizione) per poter lavorare e cioè, la sua capacità intellettiva.  Riducendogli drasticamente l’assistenza all’uomo è stato impedito anche di svolgere – tra le altre – le proprie attività lavorative. 

Il pregiudizio della disabilità (media o grave/gravissima)  legata a incapacità lavorativa poi, mi porta a porre una domanda e a fare una ulteriore considerazione: il danno esistenziale alla persona con disabilità laddove non viene riconosciuta questa capacità solo perché “disabile” (nonostante la si abbia) può essere imputato anche a certi “professionisti” che orientano gli interessati in percorsi di categoria omologanti …? ……Io penso proprio di si dato che chi ricopre certi ruoli non può in nessun caso partire da un’ottica cosi pregiudizievole e influire con ripercussioni gravi  sulle vite delle persone con disabilità. Peccato che solo da tempi recenti,   a livello giuridico,  si ha  consapevolezza del “danno esistenziale”, cosi come isolati ricorrenti che lo invocano. Però ci sono sempre stati  gli ostinati, che nel proprio piccolo hanno abbattuto col “fare” le certezze di certi personaggi.  Mi piace pensare che oggi, se qualcuno  dovesse operare in maniera pregiudizievole, lo si potrebbe denunciare per “danno esistenziale” .

In ultimo un’altra considerazione (oltre al superamento del pregiudizio diffuso dell’incapacità lavorativa di alcuni) va sottolineata: la persona con disabilità non è solo “consumatrice di welfare” ma può essere anche “produttrice di welfare”.

1.6 L’ «incidenza sui diritti inviolabili della persona: dalla normativa nazionale a quella internazionale

1.6.1 La dignità umana, i diritti fondamentali, le libertà e il danno: dalla normativa alle Corti

Il giudizio del TAR di Palermo collega in maniera concreta il diritto all’assistenza ai valori più alti sia dell’ordinamento nazionale che internazionale. La mancata erogazione di tali prestazioni dunque – partendo dalla  nostra normativa – ha comportato l’«incidenza sui diritti costituzionali inviolabili della persona, della salute e della dignità umana del disabile» (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo).   Nell’affermare ciò, la Corte fa riferimento ai diritti di cui all’art. 32 della Costituzionediritto alla salute”, art. 38 Costituzione:diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”, Art. 2 Costituzione  “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Ma, basandosi sulla sent.  Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191,    prosegue allargando agli ordinamenti internazionali e sottolineando che i  diritti inviolabili  sono ribaditi dalla Carta di Nizza, come anche  dal Trattato di Lisbona, dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’Ue, dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, e  dalla Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilitàNel caso specifico del ricorrente, la Corte  – sempre basandosi sulla sentenza della Cassazione Civile “autonomia ontologica del  danno morale  a prescindere dalla quantificazione del danno biologico” – , delinea un ponte tra l’ordinamento nazionale e quello internazionale, e sottolinea che il diverso bene protetto  “attiene ad un diritto inviolabile della persona (la sua integrità morale)”. In altre, parole si parla  dell’ integrità morale come un diritto inviolabile, che se leso costituisce un  danno all’esistenza della persona da considerare a se stante  rispetto al danno biologico  (salute psico-fisica).

1.6.1.2 La dignità umana: analisi in dettaglio della normativa di riferimento alla luce delle sentenze

In dettaglio e conformemente alla  sentenza   Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191  dunque,  anche il TAR specifica che: l’articolo 2 della Costituzione deve essere letto in correlazione con la Carta di Nizza all’art. 1 (La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata), ma anche con il Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130. Tale Trattato riguarda anch’esso la dignità umana, ma anche il diritto alla libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia e – in particolare –  rafforza anche i diritti delle persone con disabilità nell’UE.

L’articolo 2 della Cost. poi, va letto anche in relazione con la Convenzione delle Nazioni Unite che cala i diritti umani e le libertà fondamentali nella realtà specifica delle  persone con disabilità . Tali diritti sono quelli di tutti gli altri, la Convenzione però li contestualizza e mira a renderli cogenti. In particolare l’ art. 1, c. 1 ne definisce lo scopo e cioè, quello di  promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, come anche il rispetto per la loro intrinseca dignità; così come  anche  l’art. 4 c. 1: mira a “garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità”  adottando “ (…)  tutte le misure, incluse quelle legislative, idonee a modificare o ad abrogare qualsiasi legge, regolamento, consuetudine e pratica vigente che costituisca una discriminazione nei confronti di persone con disabilità” – lt. b) –  e tenendo conto “ della protezione e della promozione dei diritti umani delle persone con disabilità in tutte le politiche e in tutti i programmi” – lt. c) – astenendosi  “dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione” – lt. d). Inoltre, la garanzia dei diritti e delle libertà deve avvenire anche adottando “ tutte le misure adeguate ad eliminare la discriminazione sulla base della disabilità da parte di qualsiasi persona, organizzazione o impresa privata” – lt. e);

Una tale lettura integrata – normativa nazionale e normativa internazionale nonché sentenze delle Corti – rispetto alla persona  “colloca la Dignità umana come la massima espressione della sua integrità morale e biologica” (crfr.  Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191   e sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo). La  Corte di Palermo – a mio avviso –  in concreto  supera la diatriba se il danno morale sia collegabile al danno all’immagine, al decoro e alla dignità della persona (pretium doloris). Dalle sentenza del 2012  emerge con chiarezza che il danno cagionato  al ricorrente ha investito ognuno di questi aspetti sia nella sfera della sua persona che negli equilibri della sua vita quotidiana dai quali è conseguito un danno morale. 

Inoltre, come stabilito dalla Corte di Cassazione,  la  valutazione del danno morale – come già accennato autonoma rispetto alla diversità del bene protetto – avviene contemporaneamente alla lesione del diritto alla salute  perciò “deve tener conto delle condizioni soggettive della persona umana e della gravita’ del fatto” e il valore dell’integrità morale NON  deve essere considerata   una quota minore del danno alla salute (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191; Cass. 19 agosto 2003 n. 12124; Cass. 27 giugno 2007 n. 14846;  SU 11 novembre 2008 n. 9672 – punto 2.10).  Anche su questo il TAR Palermitano è andato oltre: non solo il danno  morale (conseguito a da quello esistenziale), non è stato considerato “minore” rispetto a quello alla salute tradizionalmente intesa. Addirittura la lesione dell’aspetto relazionale/esistenziale e morale ha superato la considerazione e l’incidenza di quello biologico.

1.6.1.3 L’autonomia, l’inserimento sociale e professionale, la partecipazione

Partendo sempre dalla Costituzione Italiana, e rispetto all’«incidenza sui diritti costituzionali inviolabili della persona, della salute e della dignità umana del disabile» (cfr. sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo), il TAR  contestualizza ancor di più la sua posizione evidenziando che l’articolo 2 della Cost. va letto anche  in correlazione con la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) anche all’art. 26 (Inserimento delle persone con disabilità) ove dispone che  L’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”.  In questo senso, il Tribunale fa riferimento anche  alla Convenzione ONU delle persone con disabilità  in relazione  all’art. 9 (accessibilità) c.1 che sancisce:     “Al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli aspetti della vita, gli Stati Parti adottano misure adeguate a garantire alle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, l’accesso all’ambiente fisico, ai trasporti, all’informazione e alla comunicazione, compresi i sistemi e le tecnologie di informazione e comunicazione, e ad altre attrezzature e servizi aperti o forniti al pubblico, sia nelle aree urbane che in quelle rurali”  “Queste misure, che includono l’identificazione e l’eliminazione di ostacoli e barriere all’accessibilità si applicano, tra l’altro, a:

a) edifici, viabilità, trasporti e altre strutture interne ed esterne, comprese scuole, alloggi, strutture sanitarie e luoghi di lavoro;

b) ai servizi di informazione, comunicazione e altri, compresi i servizi informatici e quelli di emergenza”;  

Inoltre, sempre con riferimento alla Convezione ONU, l’art. 2 Cost. va letto pure  in relazione  all’art. 19 (Vita Indipendente ed inclusione nella società) c.1 che ci parla del diritto alla  libertà di scelta: Gli Stati Parti alla presente Convenzione riconoscono il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone, e adottano misure efficaci ed adeguate al fine di facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società, anche assicurando che:

  1. le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione.
  2. le persone con disabilità abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e ad altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione
  3. i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, delle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni”.

1.6.1.4 Il diritto alla privacy inizia a diventare reale tanto da essere anche parte del danno?

Un fatto importantissimo  è che – secondo le Corti – l’articolo 2 della Cost. va letto  anche collegandolo alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo  (CEDU)  che all’art. 8  commi 1 e 2 – per “come interpretato evolutivamente dalla Corte di Strasburgo” (Cfr.  Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191   e sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo)  –  stabilisce che  “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”. Non può esservi ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto se non in quanto tale ingerenza sia prevista dalla legge e in quanto costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Nel caso specifico sottoposto al TAR di Palermo nel 2012, appare evidente che anche il cd. “diritto alla privacy” – che rientra nei diritti umani fondamentali – è stato violato. Infatti, la riduzione drastica delle prestazioni assistenziali ha sconvolto la “vita privata e familiare dell’uomo con disabilità”  incidendo sulla sua  condizione psico-fisica impedendogli le normali attività quotidiane. Dunque, l’impatto sull’interessato  ha coinvolto la sua salute, la sua sfera morale e la sua libertà individuale la quale,  è legata indissolubilmente anche al diritto alla privacy. Tanto più che dalla sentenza emerge anche che una tale situazione – che poteva essere evitata dalla Pubblica Amministrazione se non avesse avuto un comportamento omissivo trasformato poi in tagli alle prestazioni – nei fatti è stata una vera e propria ingerenza illegittima nella vita dell’uomo.

Una considerazione: riconoscere  da parte del Tribunale che è stata violata la vita privata dell’uomo proprio limitandogli il diritto all’assistenza, mi permettere di collegare la  sentenza palermitana ad una mia teoria esposta in un articolo nel quale,  con riferimento però allo specifico tema dell’assistenza cd. indiretta (cioè quella erogata con un operatore scelto direttamente dall’interessato), mi chiedevo se negare quel tipo di prestazioni poteva finalmente dare effettività al diritto alla privacy come diritto umano fondamentale  – inscindibile da tutti gli altri diritti fondamentali –  fino a configurare una vera e propria ipotesi di reato in caso di violazione (cfr. in: “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato….?.”.

Specificatamente, in quell’occasione facevo rifermento alla libertà di scelta della persona con disabilità rispetto all’operatore da cui farsi assistere ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge 104/1992 e  della Convenzione ONU sulle persone con disabilità che all’articolo 19 (vita indipendente) ci parla proprio di questa libertà. Dalla compressione della  libertà di scelta dunque,  ipotizzavo  anche  un reato  per violazione del diritto alla privacy ai sensi dell’art. 22 c. della Convenzione ONU che ne sottolinea l’inviolabilità in quanto diritto umano anche delle persone con disabilità. In quel caso, in particolare,  affrontavo l’”interferenza arbitraria o illegale nella vita privata e nella propria casa”,   la dove la persona con disabilità è costretta – a causa dell’ imposizione degli operatori da parte degli Enti pubblici e da necessità – ad aprire la porta e farsi mettere addosso le mani da chiunque. Una costrizione che mi ha permesso di far riferimento all’art. 615 bis del nostro codice penale il quale chiarisce che attraverso l’ interferenza nella vita privata, viene messa in pericolo la riservatezza dei rapporti umani della persona che nei luoghi domestici  si svolgono. Inoltre, l’art. 614 del codice penale stabilisce che nella violazione di domicilio viene messa in pericolo la “integrità territoriale” della sfera della casa altrui, che è un luogo sacrosanto e inviolabile contro la propria volontà ma lo è  anche nel caso in cui  tale volontà  è in realtà  costretta da necessità ogni volta che si sarebbe potuto scegliere diversamente. A seguire, guardavo  ai principi massimi del nostro ordinamento e cioè, all’articolo 14 della Costituzione che a monte sancisce l’inviolabilità del domicilio e la protezione della casa come regno personale e della propria famiglia. Ma prendevo a riferimento anche  l’articolo 13 della Costituzione  estendendolo al diritto alla vita privata  laddove afferma l’inviolabilità della libertà personale garantendo la persona da ogni “indebita intromissione” nella sua “sfera psichica e fisica”……

Sempre in quell’articolo – anche se partendo da presupposti diversi – prendevo come riferimento di base l’articolo 2 della Costituzione (Cass. Civ., Sez. III, 12.12.2008 n. 29191 e sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo) utilizzandolo come “cornice unica” della normativa di cui ho parlato fino ad ora. Infatti, con questo articolo la nostra Carta Costituzionale mette la persona al centro dell’ordinamento giuridico, riconoscendo e garantendo i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia a livello sociale.       Perciò, scrivevo, anche la vita privata deve  essere assicurata ed è riconosciuta come un diritto protetto costituzionalmente.

Non solo: nell’articolo sostenevo che anche l’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il quale  sancisce la “garanzia relativa al pieno sviluppo della persona umana” (aspetto fondamentale di cui tener conto quando si ipotizza un danno esistenziale come si è finora visto) , sembra poter comprendere il diritto alla privacy.  In quello scritto, dopo una disamina, ponevo – tra le altre – le seguenti domande:

  1. Può il decisore pubblico limitare la libertà di scelta del cittadino e di fatto violarlo nella sua sfera privata sia fisica (indubbiamente anche psichica) che di relazione?…..
  2. Può il decisore pubblico (…..) violare il corpo, gli ambienti e gli equilibri familiari della persona?

Domande che sorgono   anche guardando indietro nel tempo alla  sentenza del TAR di Palermo del 2012  per aspetti diversi (contesto della situazione specifica) ma uguali ove  è riconosciuto il danno sia esistenziale (libertà, relazione con gli altri, atti di vita quotidiana, aspetto morale) che biologico (aspetto psico-fisico). Ma anche quesiti che ci continuiamo a porre considerando che il presupposto degli abusi a determinate categorie di persone è sempre  un’azione indebita della Pubblica Amministrazione attraverso il  taglio della prestazioni assistenziali di qualunque tipo esse siano.  

Tanto che, come già detto, anche il TAR di Palermo  riferimento  al diritto alla privacy  (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo  (CEDU)  che all’art. 8  commi 1 e 2)  perché nei fatti – rispetto alla situazione  del ricorrente – si son dimostrate le conseguenze del fatto  che l’ingerenza della Pubblica Amministrazione – tra le altre cose –   ha ampiamente violato la sfera della persona sotto questo punto di vista. Anche in questo caso emerge chiaramente si è violato il corpo dell’uomo (sfera psico-fisica) nonché gli  equilibri familiari dello stesso condizionandone il vivere negli ambienti domestici ed esterni. Perciò anche la violazione della privacy del ricorrente è parte del danno riconosciuto dalla Corte.

E allora la teoria a favore della tutela della privacy che ipotizzavo in   “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato….?….” (che scrivevo in un tempo successivo  alla sentenza perché ne  sono venuta a conoscenza solo successivamente a quella teoria) si può arricchire normativamente  riferendoci anche alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo  (CEDU), art. 8  commi 1 e 2,  come pure  dell’elemento dell’eventualità di  danno esistenziale e biologico rispetto alle prestazioni assistenziali rivolte alle persone con disabilità in quanto, anche la violazione della privacy costituisce presupposto di danno.  E’ il Tar di Palermo che  ha reso tutto questo concreto e rivendicabile. 

1.7 La libertà di scelta è un’utopia o le Corti hanno iniziato a renderla effettiva per le persone con disabilità?: la suprema Corte di Cassazione.

Partendo dal danno esistenziale riconosciuto alle persone con disabilità (sent. 12 aprile del 2012, n. 755 del TAR di Palermo)  in caso di mancata o limitata erogazione delle prestazioni assistenziali,  la mia attenzione è andata su una sentenza del 2013 proveniente da un altro Tribunale. In questo senso,  non posso far a meno di pensare che quella del TAR di Palermo possa aver fatto in un certo senso da apripista. Infatti, la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 19963 del 30 agosto 2013, ha sancito il diritto ad un indennizzo per danno esistenziale per chi riporta un grave handicap, in seguito a un incidente, al punto che la sua vita di relazione viene compromessa in modo importante. Un’altra Corte dunque,  viene di nuovo a garantire il diritto al  risarcimento per danni cagionati ad una persona che si ripercuotono soprattutto sul piano della relazione con gli altri e provocano una alterazione della libera scelta. Di nuovo dunque (chiaramente in un altro contesto),  si parla delle persone ponendo l’attenzione sulla “libera scelta individuale” e lo si fa proprio con riferimento alla disabilità.  

1.8. Cosa ha accolto il TAR di Palermo 

Il decreto dirigenziale dell’Assessorato regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro, come già visto, è in ultimo annullato dal TAR di Palermo nella parte in cui ha limitato nel tempo  e ridotto l’erogazione delle prestazioni volte al ricorrente e in più, a quest’ultimo è stato riconosciuto un danno biologico ed esistenziale. Ma un altro punto importante è che l’annullamento è  accolto  anche nella parte in cui tale decreto ha considerato  la quota d’indennità statale destinata all’accompagnamento come “indice (cioè valore) per stabilire la capacità economica della persona con disabilità in questione” detraendola dagli importi da corrispondere. Questo è un altro argomento che ci riporta ai giorni nostri e agli abusi in tal senso contenuti nel decreto sul cd. Nuovo ISEE . Situazione che ha portato le persone con disabilità e le famiglie a ricorrere al TAR contro tale decreto su vari punti  tra cui quello che l’indennità di accompagnamento non è indice di reddito (cfr. in  Governo: analisi personale delle dichiarazioni del commissario alla spending review).

Tuttavia, nonostante i TAR  hanno dato ragione ai ricorrenti, il governo ha ignorato tali sentenze, temporeggiato e continuato ad utilizzare le modalità delle soglie di accesso alle prestazioni fissate in quel decreto (di fatto a danno dei cittadini),  e ha preannunciato  un’azione giudiziaria al Consiglio di Stato.

1.9 Cosa non ha accolto il TAR di Palermo

La Regione Sicilia, allo scopo di contenere la spesa pubblica, ha stabilito per l’assistenza personale volta alla vita autodeterminata delle persone con disabilità grave, un tetto annuo abbastanza alto rispetto anche ad altre Regioni d’Italia (decreto assessoriale n. 28 del 17 gennaio 2011). Il Tar della Sicilia ha ritenuto legittimo che nel Decreto  sia stato stabilito un tetto annuale massimo per tale finanziamento al fine di contenere la spesa pubblica sanitaria e data la scarsità delle risorse disponibili. Inoltre, secondo la Corte, fissare un tetto ha lo scopo di garantire l’”imparzialità e la parità di trattamento” nell’ erogazione dei contributi e, perciò,  non è sindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo. In questo senso la Corte riconosce all’Ente Pubblico un’alta discrezionalità nel paragonare e decidere su esigenze aventi entrambe garanzia costituzionale e cioè, l’assistenza sanitaria da erogare e garantire  e la relativa copertura di bilancio.  

Il Tribunale sottolinea che questa discrezionalità non ha alcun profilo di “manifesta illogicità” (quindi ritiene la scelta della Pubblica Amministrazione logica sul piano di diritto e di fatto nel caso concreto dell’uomo), né che il richiedente l’assistenza sanitaria può vantare un diritto soggettivo all’elargizione di una contribuzione minima   proprio per la necessità di bilanciamento di entrambi gli interessi (l’assistenza sanitaria per l’interessato e la disponibilità di risorse dell’Ente Pubblico). La mancanza di un diritto soggettivo all’assistenza sanitaria è il  punto dolente rispetto alla  sottrazione dei diritti fondamentali alle persone con disabilità che ho affrontato esaminando le successive sentenze    n. 154-156-157 del 2015 del TAR Piemonte

Nell’articolo “Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario” ho sottolineato che il trasferimento di tutta una serie di prestazioni all’area integrata socio sanitaria –  tra cui quelle rivolte alle persone non autosufficienti e all’assistenza –  ha comportato che una parte degli interventi sono un diritto esigibile in quanto di natura sanitaria  e, dunque, a carico del SSN. 

Mentre, a tutt’oggi, l’altra parte degli interventi sono considerati di natura sociale quindi  a  carico dell’utente e/o con un’integrazione è a carico del Comune, senza che la normativa statale (compresa la legge 328 del 2000 di Riforma dell’assistenza) definisca alcun diritto soggettivo a beneficiarne. Da ricordare poi che  solo con  la legge finanziaria del 2003 si è riconquistata  in parte l’esigibilità del diritto  a determinati interventi. Infatti,  prima del 1985 si aveva la  piena esigibilità delle prestazioni ma, a seguito di  scellerati provvedimenti normativi, questo presupposto è stato addirittura soppresso.

Dunque il TAR del Piemonte nel 2015, ribadisce questa esigibilità almeno della  parte sanitaria dell’assistenza leggendo la legge nazionale alla luce dei principi della Costituzione nonché della Corte Costituzionale e di altre sentenze di Tribunali Amministrativi. Invece,  la precedente sentenza del TAR di Palermo (presa in esame in questo scritto)  nel 2012  nega al ricorrente  tale esigibilità  – attraverso la riduzione  indebita delle prestazioni –  motivandola collegandola alle esigenze di copertura di bilancio. Una circostanza non solo criticabile ma oggi anche contestabile perché il    TAR del Piemonte – nel 2015 – non solo ha chiarito che una parte dell’assistenza sanitaria rientra nei Lea e va garantita, ma  ha anche  ribadito  che le politiche di risparmio “non possono comprimere i diritti umani”. La Corte Piemontese ha  evidenziato  che  laddove  l’esecuzione del programma di solidarietà sancito nella Costituzione incontra ostacoli di tipo economico-finanziario per l’obiettiva carenza di risorse da stanziare e/o in caso di accordi di rientro da deficit, il rimedio più immediato non è la violazione dei LEA negandoli, ma è una “diversa allocazione delle risorse disponibili” (come stabilito anche dalla sent. 36/2013 della Corte Costituzionale). Cfr. Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario”.

Anche il fatto che la posizione del TAR di Palermo è dettata da esigenze di “imparzialità e parità di trattamento” è criticabile proprio perché queste non guardano all’”esigenza personale” dell’interessato ma mirano esclusivamente a un “livellamento” generale che poggia sulle risorse disponibili. Questo è un errore (pari diritto con gli altri e risorse disponibili) che fa anche il Tribunale Civile di Ascoli Piceno per la parte sociale delle prestazioni.  Nonostante infatti  la  sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013 del Tribunale marchigiano ha stabilito che “negare le prestazioni sociali è discriminazione”, questa tutela appare  non pienamente efficace. Infatti, tra le varie contraddizioni esposte nell’articolo  Assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”,  in quell’occasione il Giudice prima ha sottolineato che “anche in caso di risorse scarse gli Enti Pubblici obbligati – in situazioni di disagio – a trovare un accomodamento ragionevole per non creare esclusione sociale”. Certamente  questo è importante perché anche in questa sentenza si supera  la scusa degli Enti Pubblici che si dicono costretti al  “taglio delle prestazioni perché non ci sono i soli” e in più si riconosce (ai sensi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità) il loro obbligo a cercare un “adattamento ragionevole” rispetto alle esigenze di vita della persona. Tuttavia, il Giudice ha  poi   accolto  come non discriminatorio  che alla persona con disabilità  sono state concesse un “massimo di 8 ore settimanali” (un’ora e mezza al giorno)  di assistenza  per la cura della propria igiene personale e della propria casa.  In altre parole, il Giudice ha ritenuto congrui il tetto di ore fissato dal Comune  in base alle risorse scarse disponibili e ad una parità di trattamento “omologante” non preoccupandosi di verificare se quel quantum cosi basso fosse veramente rispondente alle esigenze della persona e se in concreto fosse sufficiente – tanto da costituire un appropriato adattamento ragionevole – a non creare l’esclusione sociale dell’interessato e a garantirgli la possibilità di vivere una esistenza dignitosa.   In tal senso si vedano i molti  dubbi  che ho evidenziato nell’articolo Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario”.

Fermo restando che se si volesse veramente non discriminare e superare tutto questo, l’area sociale non dovrebbe proprio riguardare le categorie di utenti – come quelli non autosufficienti nel nostro caso e che usufruiscono di prestazioni “vitali” – che sono state dal 1985 in poi  man mano e ingiustamente comprese nell’area di integrazione socio-sanitaria anziché lasciati nell’ambito della completa tutela della sfera sanitaria nazionale. Tutto questo detto va letto in termini di principio: anche se al ricorrente la Pubblica Amministrazione ha  riconosciuto  un importo massimo annuale che è il triplo o il quadruplo di quanto è stato stabilito in altre regioni d’Italia, quello che bisogna capire è che va guardata l’esigenza personale di chi ha bisogno di certe prestazioni e che non ci può essere “scelta” dell’Ente Locale su “se” concederle e/o su “quanto concedere” tra una realtà territoriale e l’altra. Questa è una disomogeneità su territorio nazionale inaccettabile di fronte a quelle che sono senza dubbio esigenze vitali di alcune persone e diritti umani fondamentali. Una disomogeneità che però è stata resa possibile dalla riforma del Titolo V della Costituzione e da una normativa statale che – come precedentemente abbiamo visto – dal 1985 in poi ha aperto la via all’espulsione di alcune categorie dal godimento di certi diritti.

Concludendo, appare evidente che sulla via tracciata dalle Corti e guardando alla normativa nazionale ed internazionale, oggi possiamo iniziare a credere che la libertà individuale e la libera scelta di come, dove e con chi  vivere la propria vita  è qualcosa di concreto e si può addirittura rivendicare come danno alla propria esistenza quando negata. Il primo passo è rendersene conto. Il secondo passo invece è partire dal cammino delle Corti, guardare oltre i casi specifici delle sentenze e focalizzare l’attenzione sul fatto che troppo spesso la vita delle persone con disabilità viene ostacolata e sconvolta non solo nell’ambito trattato finora, ma ogni volta che queste vengono escluse da una inclusione vera in ogni ambito sia pubblico che privato.  Ma  oggi, guardando alla normativa e alle Corti,  il diritto e il danno alla libertà individuale appare molto più reale e possibile.

Aprite le ali e liberate la vostra libertà

Eleonora Campus

  

 

 
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Pubblicato da su 27 giugno 2015 in Disabilità: Sentenze

 

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Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario

Assistenza domiciliare non professionale: un diritto garantito a metà e non sempre. L’inganno socio-sanitario

Autore: Eleonora Campus

Con le sentenze 154 – 156 e 157 del 2015, il TAR della Regione Piemonte ha confermato che le “prestazioni socio-sanitarie” domiciliari  (cd. assistenza tutelare) delle “persone non autosufficienti” (cioè con disabilità e non autosufficienza), sono qualificate come Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) ossia, le prestazioni e  i servizi che il Servizio sanitario nazionale (istituito dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833) –  è obbligato a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione cioè, il cd. ticket (cfr. Ministero della Salute). 

Si tratta, nel caso in esame,  delle «prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona» fornite da familiari e da badanti. Le prestazioni comprese nei  LEA dunque, sono un diritto pieno ed immediatamente esigibile da parte degli interessati. La Corte  del Piemonte nel caso specifico, ha accolto i ricorsi  del Comune di Torino (sent. 154 del 2015), di numerosi altri Comuni ed Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali piemontesi (sent. 157 del 2015), ed anche  di alcune associazioni di categoria (sent. 156 del 2015) che,  con le stesse motivazioni, hanno agito contro le delibere n. 25 e 26/2013, n 5/2014 della Giunta Regionale. In particolare il Tribunale ha annullato questi provvedimenti  nella parte ove risultavano lesivi del “diritto esigibile” alle prestazioni socio-sanitarie domiciliari  – in questo caso svolte da persone non professioniste come familiari e badanti perché i provvedimenti non intaccavano quelle svolte da personale tecnico dell’assistenza o infermieri- rivolte a  persone anziane non autosufficienti nei vari momenti della vita quotidiana a casa propria.

L’illegittima posizione della Regione Piemonte – secondo il TAR –  è dovuta al fatto che le delibere di Giunta avrebbero “spostato” anche la quota sanitaria  delle  prestazioni domiciliari, svolte da familiari e badanti e corrisposte attraverso il cd. “assegno di cura”, al settore assistenziale riclassificandole interamente (al 100%) come interventi di tipo socio-assistenziali “extra-LEA” (cioè fuori dei LEA). Di conseguenza, il settore sociale  (Utenti/Comuni) se ne è completamente  fatto carico.

Invece, tutte le  prestazioni  di assistenza tutelare sono definite come LEA dal d.P.C.M del 29 novembre 2001  e, perciò, riguardano un servizio che deve essere  “gestito e coordinato direttamente dal Distretto socio-sanitario delle Aziende Sanitarie Locali in collaborazione con i Comuni”  come disposto  dal d.P.C.M.  del 14 Febbraio 2001 che è  l’Atto di Indirizzo di classificazione delle prestazioni.

Secondo la Corte questi  Livelli, in quanto essenziali, non sono limitabili e l’ erogazione deve essere garantita dal Sevizio Sanitario, a “livelli uniformi”, su tutto il territorio nazionale come stabilito dal  d.lgs, 30 dicembre 1992, n. 502  e dal successivo d,lgs.  n. 229 del 1999 (cd. decreto Bindi che da una spinta alla regionalizzazione) – entrambi di Riforma del SSN –  che sono anche la normativa di riferimento dell’Atto di Indirizzo del 14.02.2001  e del  d.P.C.M. del 29 novembre 2001.  Secondo il TAR attraverso una interpretazione del d.P.C.M del 29 novembre 2001 orientata prima di tutto alla Costituzione e alla salute come “diritto fondamentale  dell’individuo e interesse della collettività” (tutelato dalla Repubblica ai sensi dell’articolo 32 Costituzione rispetto anche al dovere di solidarietà sociale ai sensi dell’art. 2 Cost.),  le prestazioni socio-sanitarie sono diritti che non possono essere negati, neanche in caso di  risorse di bilancio scarse o a fronte del  risanamento del debito sanitario di alcune Regioni in disavanzo (come il Piemonte) cioè,  in una situazione in cui i costi hanno superato le entrate. E’ il Servizio Sanitario Nazionale che ha il compito di rendere effettiva la tutela richiesta dalla Costituzione, attraverso  i LEA definiti dal  Piano Sanitario Nazionale nel rispetto dei “principi della dignità della persona umana, del suo bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze (…)” (come disposto dall’ articolo 1, comma 1 e 2 del d.lgs. n.502 del 1992). 

Riguardo al caso specifico, secondo la Corte la questione centrale è  una corretta interpretazione della nozione di “assistenza tutelare alla persona”, stabilita dal d.P.C.M del 29 novembre 2001  (Allegato 1.C, par.n. 7, lett. e). A nulla infatti vale la motivazione della Regione Piemonte che senza alcuna base normativa ed arbitrariamente non ritiene “tutelare” solo quella fornita da operatori senza specifica qualifica professionale. Il Tribunale ha affermato che questo tipo di  prestazioni socio-sanitarie fornite da personale non professionista  rientrano comunque nei Livelli Essenziali di Assistenza (dunque nella immediata esigibilità) – per la parte importante e non modificabile sia del diritto alla salute che  all’assistenza socio-sanitaria, imposta dalla Costituzione all’art. 32 ed ai sensi dell’art. 117, comma 2. lett. m, Cost.  (principio già affermato  dalla stessa Corte Piemontese con sentenza n. 199 del 2014) –   come indicati con d.P.C.M. 29 novembre 2001Tale decreto con la nozione di “assistenza tutelare” attua la previsione generale  dell’art. 1, comma 6, del d.lgs. n. 502 del 1992  che dispone che l’assistenza sanitaria deve essere e erogata dal Servizio sanitario nazionale  e si svolge negli ambiti dei LEA specificatamente dell’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, dell’assistenza distrettuale e dell’assistenza ospedaliera.

Le sentenze sono importanti perché, basandosi su una precisa normativa Costituzionale e Statale in materia,  nonché su precedenti sentenze del TAR stesso,  danno corpo alla salvaguardia  dell’esigibilità del diritto alle prestazioni socio-sanitarie  contrapponendole  alle «esigenze della finanza pubblica» che non possono portare a schiacciare la parte fondamentale e non modificabile  del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana e del diritto primario ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione. Più dettagliatamente infatti, secondo la Corte, per le “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” ( come anche l’assistenza tutelare)  il riferimento è l’articolo 3-septies, comma 2, lettera b, del d.lgs n.502 del 1992 ai sensi del quale esse comprendono “tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”. Da notare che anche l’emarginazione condiziona lo stato di salute. Dunque,  questo tipo di prestazioni  proprio per la loro natura sociale  ma di importanza sanitaria (la cura della persona, il soddisfacimento dei suoi bisogni primari come alzarsi, lavarsi, vestirsi, andare in bagno, la preparazione e l’aiuto durante i pasti, l’assistenza nei movimenti,  la somministrazione dei farmaci se necessari),  sono  particolarmente adatte sia ai bisogni di cura della persona non autosufficiente (art. 32 Cost.) sia alla salvaguardia della sua dignità in un momento particolarmente difficile della sua vita (cfr. sent. TAR 156 del 2015).

Secondo il giudizio del TAR se l’esecuzione del programma di solidarietà sancito in Costituzione incontra ostacoli di tipo economico-finanziario per l’obiettiva carenza di risorse da stanziare e/o in caso di accordi di rientro da deficit, il rimedio più immediato non è la violazione dei LEA negandoli,  ma è una diversa allocazione delle risorse disponibili (cfr. anche sent. 36/2013 della Corte Costituzionale).   E questo vale  pure per  «le prestazioni di aiuto infermieristico ed assistenza tutelare alla persona» che sono e devono continuare ad essere garantite ed erogate dal SSN o a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa (art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992). Pertanto, il TAR ha stabilito che resta il mantenimento del 50% del loro costo a carico del Servizio sanitario. Spetta alle singole amministrazioni (nel caso in questione alla Regione) predisporre le risorse in modo tale da equilibrare i vari interessi protetti dalla Costituzione che chiedono di essere realizzati  (cfr. TAR Piemonte, sentenza n.199 del 2014 e sentenza 156 del 2015). Inoltre, il  Piemonte ha violato la sua stessa legge Regionale n. 10 del 2010 (servizi domiciliari per le persone non autosufficienti), che include tra le prestazioni di lungo-assistenza croniche, anche le prestazioni non professionali di “assistenza familiare” (cosi come pure alcune delibere di Giunta in vigore). A seguito delle sentenze, la Regione non esprimeva l’intenzione di ricorrere  al Consiglio di Stato contro i giudizi  del TAR,  che annullando le delibere di Giunta Regionale, ha riportato alla titolarità della sanità la metà del pagamento delle prestazioni di aiuto infermieristico e di assistenza tutelare ai non autosufficienti. Tuttavia, successivamente, da alcune fonti è emerso che la Regione non avrebbe mantenuto questa intenzione e pare che ricorrerà contro le sentenze perpetrando – in maniera assolutamente intollerabile – la sua posizione di abuso rispetto al  diritto alle cure socio-sanitarie dei cittadini non autosufficienti (cfr. in Cure domiciliari, la Regione Piemonte frena).  Una grave presa di posizione che antepone motivi di carattere economico – giustificati dall’esigenza di risparmiare – alla vita delle persone, Motivi ancor più scellerati se si pensa che sono proprio le cure domiciliari che permettono di spendere meno rispetto ad altre soluzioni. Dunque la Regione sceglie la via dell’eugenetica laddove non riesce a deportare forzatamente le persone non autosufficienti in strutture volte ad alimentare il sistema?…..Questo è un grave attacco alla vita, alla libertà e al diritto di scelta di alcune categorie di cittadini

Un abuso evitato e una normativa discriminatoria che resta

Tuttavia, a ben vedere il Tribunale evita l’ “ulteriore abuso” dello spostamento totale delle prestazioni di assistenza tutelare al settore sociale perché la metà di questi  costi già non rientrano nella copertura del SSN  e si continua – sulla base di una precisa storia  normativa – ad assoggettarli (al solo scopo di risparmiare) alla non equa contribuzione attraverso l’attribuzione di una percentuale di spesa all’utente o al comune.  

A partire dalla metà degli anni ottanta  infatti, la legge finanziaria del 1984 (Legge 730/83, art. 30) crea lo strumento che permette  questo abuso e cioè, la  specifica area di integrazione socio-sanitaria che comporta un nuovo regime di finanziamento ove riversare   alcune categorie “selezionate” di cittadini. Questa area  vede l’integrazione di risorse sanitarie e sociali perciò, attribuibili ad un ambito integrato e  non ad un ambito di competenze solamente sanitarie o ad un ambito di competenze solamente sociali. E’ decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 agosto 1985 (cd. decreto Craxi che è un atto di indirizzo e coordinamento a cui demandava la legge finanziaria del 1984) che ha il compito di definire  le  “attività di rilievo sanitario connesse con quelle  assistenziali” cioè, quelle per le quali era prevista una quota a carico del servizio sanitario nazionale e non più l’interezza.   Perciò , le Regioni  – a cui il decreto  è rivolto – vengono autorizzate a legittimare una “compartecipazione sanitaria” alla spesa allo scopo  di spostare alcune fasce di utenti (individuate dalle Regioni stesse) dal settore sanitario a quello socio-sanitario rispetto ad alcune  prestazioni  di prevenzione, cura e riabilitazione  fisica e sociale, che fino a quel momento erano state un diritto soggettivo pienamente esigibile perché  a carico delle Unità Sanitarie Locali – ossia le attuali  Aziende Sanitarie Locali –  con risorse totalmente  provenienti  dal  fondo sanitario nazionale.

Il trasferimento al nuovo settore integrato ha riguardato ai sensi del decreto Craxi del 1985:  l’area materno infantile, le persone con handicap,  gli anziani  non autosufficienti, i dementi senili e i malati di Alzheimer, i pazienti psichiatrici. Molti anni dopo, con il  d.P.C.M.  del 14.02.2001 si aggiungono : le persone non autosufficienti con patologie cronico degenerative; i soggetti alcolisti e tossicodipendenti; gli affetti da patologie psichiatriche; gli affetti da patologie da Hiv.  Il Servizio Sanitario mantiene a totale carico solamente i pazienti terminali rispetto alle «prestazioni e trattamenti palliativi in regime ambulatoriale domiciliare, semiresidenziale, residenziale». Con il d.PC.M. del 14.02.2001, si impone ai Comuni  – titolari delle funzioni socio-assistenziali  delle aree territoriali di provenienza degli utenti –  di finanziare  (senza risorse aggiuntive) una parte delle attività  rispetto a queste  tipologie di utenti. Al decreto del 14/02/2001 fa seguito, nel novembre dello stesso anno, il “decreto Sirchia” del 29 novembre 2001 che definisce i “Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria”. Anche questo d.P.C.M. conferma il trasferimento degli utenti all’area di integrazione socio-sanitaria e inserisce alcune prestazioni rigorosamente sanitarie tra quelle “assistenziali” già assoggettate dalla precedente normativa alla contribuzione da parte del cittadino e/o del Comune.

In pericolare, il decreto  del 29 novembre 2001 stabilisce che le spese per “prestazioni di assistenza tutelare” (di interesse del caso del TAR Piemonte) al 50% sono considerate “quota sanitaria” e rientrano nei LEA. Dunque, come ribadito anche dalla Corte Piemontese, tali costi devono essere coperti dalla ASL per l’intera quota in questione  e sono a carico e garantiti dal Servizio Sanitario nazionale (Allegato 1.C, par.n. 7, lett. E). Il restante 50% delle spese, invece, sono considerate “quota sociale” e non rientrano nei LEA. Perciò sono a  carico dell’utente al quale viene richiesto di contribuire, in genere, per tutta la quota detta  e se non ha redditi sufficienti deve intervenire il Comune di residenza sulla base dell’ISEE dell’interessato e con risorse di uno specifico fondo sociale: il  Fondo Non Autosufficienze (FNA). In sostanza, ci si trova di fronte ad una compartecipazione dei costi tra il settore sanitario nazionale (ASL) che per la metà  garantisce le prestazioni a tutti gli aventi diritto, ed il settore sociale a livello locale (utente/Comuni) che per l’altra metà impatta sull’interessato e – ove interviene il Comune – si basa sulle risorse disponibili e sulla discrezionalità dell’Ente nello stabilire l’accesso agli interventi.

Con l’articolo 54 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003) si fa un passo avanti perché sono  confermati i livelli essenziali di assistenza stabiliti dall’articolo 1, comma 6, del d,lgs.  n. 502 del 1992,  ed i due d.P.C.M del 2001 acquistano forza di legge. Grazie alla finanziaria,  le prestazioni socio-sanitarie – per la parte dei LEA –  diventano “diritti soggettivi immediatamente esigibili” di cui godere nei confronti degli Enti Gestori e della ASL di riferimento (come disposto dall’articolo 4, comma 2, del d.P.C.M. 14. 02.2001). Ai sensi del comma 2 dell’art.54 della legge finanziaria 2003,  sulla scorta del secondo  e terzo d.lgs. di riforma del SSN (d.lgs. 502 del 1992 e d.lgs. 229 del 1999), il Servizio Sanitario deve comunque garantire “attraverso le risorse finanziarie pubbliche individuate dal comma 3 e conformemente ai principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n.833” prima legge di istituzione e di riforma del SSN: “i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse”. 

L’esigibilità del diritto, importante e ribadita dal TAR,  è stata però conquistata (o per meglio dire riconquistata) “relativamente” grazie alla  finanziaria del 2003. Infatti,  resta il fatto che l’integrazione socio-sanitaria comporta una  divisione in tre quote degli interventi e mantiene le modalità dello spostamento di parte di queste attività dall’area sanitaria a quella sociale.  Perciò  una parte delle prestazioni si confermano  di natura sanitaria quale diritto esigibile e a carico del Fondo Sanitario Nazionale. Ma una parte continuano ad essere  a carico dell’utente e/o  con un’integrazione è a carico del Comune, senza che la normativa statale (compresa la legge 328 del 2000 di Riforma dell’assistenza)  definisca alcun diritto soggettivo a beneficiarne. Anche se il principio   importante che negare le “prestazioni sociali è discriminazione”  è stato disposto dalla  sentenza di Ascoli  (non senza qualche criticità cfr.  in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”),questa sembra una tutela circoscritta e di altro ambito (quello puramente sociale)  che non deve riguardare le categorie di utenti che  sono state, dal 1985 in poi, man mano e ingiustamente comprese  nell’area di integrazione socio-sanitaria e usufruiscono di tali prestazioni. Un’area costantemente  in bilico tra il legale e l’illegale. 

L’assistenza sociale dunque è un’altra sfera perché è riconosciuta dall’art. 38 della Costituzione alle persone inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere. Ma  inabilità  e mancanza di capacità lavorativa non sono sinonimo di disabilità se pur grave o particolarmente grave e se pur rientrante nella cd. non autosufficienza. E i costi delle prestazioni di aiuto negli atti di vita quotidiana sono accollati e non sopportabili per  tutti per cui, vanno “oltre” i normali mezzi necessari per vivere. Queste prestazioni di assistenza non sono collegabili solo all’indigenza totale. Il riferimento Costituzionale deve essere l’articolo 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute di ognuno ma totalmente, senza frammentarlo (o addirittura disintegrarlo) nell’area sociale definita dall’art. 38 della Costituzione.  

Paradossalmente, anche la legge  di Riforma dell’assistenza 328 del 2000 all’art. 2 comma 3 e 4  da la precedenza   di accesso alle prestazioni a tutti i soggetti che si trovano in condizione di povertà, o con limitato reddito, nonché ai soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali. E sulla povertà e sulle soglie di quello che dovrebbe essere un “limitato reddito” si gioca – attraverso l’iniquo strumento dell’ISEE –  l’ennesima esclusione dei soggetti deboli da prestazioni ed erogazioni volte ad assicurare i  diritti fondamentali. Ma se questo è vero, per capire i processi di esclusione e di abuso avvenuti con la creazione dell’area socio-sanitaria, occorre chiedersi cosa intendiamo per non autosufficienza e chi intendiamo siano i soggetti non autosufficienti.

Cosa è la non autosufficienza e chi sono le persone non autosufficienti

La non autosufficienza non è una condizione  standard: possono rientrarci  persone con esigenze diverse che hanno bisogno di cure per tutto l’arco della vita o che si devono inserire nella vita quotidiana come chiunque altro.  Può dunque riguardare bambini,  giovani, adulti, anziani malati cronici e/o  non autosufficienti, persone con disabilità  fisica, psichica e sensoriale, malati psichiatrici, di Alzheimer, con HIV, oncologici e patologie croniche varie. Sono tutti soggetti  che necessitano di assistenza infermieristica, di prestazioni terapeutiche, fisioterapiche e riabilitative a casa propria  o presso strutture diurne e residenziali ma, hanno bisogno  anche di supporto negli atti di vita quotidiana compreso l’aspetto umano e relazionale verso il mondo esterno.   Tutte queste persone hanno il diritto ad usufruire delle prestazioni di assistenza domiciliare – nella forma da loro scelta ai sensi della Convenzione ONU sulle persone con disabilità – per far fronte ad esigenze fondamentali di vita quotidiana e non soccombere in assenza di supporto. Va da se che per affrontare tali esigenze nessuno deve essere messo in condizione di sopportarne il peso economico (se non classificato come indigente) e di sprofondare a sua volta in povertà estrema.

Gli esclusi parziali e gli esclusi integrali; l’incertezza del diritto, l’arbitrarietà delle valutazioni di accesso alle prestazioni, la competenza sociale come strumento di abuso

In tutte le prestazioni socio-sanitarie elencate nel d.P.C.M. del 29 novembre 2001  – come afferma specificatamente il d.P.C.M. stesso – la componente sanitaria e quella sociale non  risultano  operativamente distinguibili tra loro.   Perciò,  le prestazioni sociali richiamate nei Lea devono essere  considerate unitamente sia  con quelle sanitarie che con quelle  socio-sanitarie. La competenza  degli interventi stabiliti dal decreto 29 novembre 2001 è dunque sanitaria comprese le prestazioni socio-sanitarie che con l’approvazione dell’articolo 54 della legge 289/2002 rientrano,  conformemente alla  legge, tra i Livelli essenziali (come da allegato 3, lettera d del decreto 2001) che il Servizio sanitario è obbligato  a garantire.

Eppure si continua a mantenere il sistema della compartecipazione  tra il Servizio Sanitario Nazionale e l’area sociale su base locale  secondo una logica di risparmio economico a danno degli Utenti e/o Comuni.  Non solo: le  prestazioni  assistenziali di natura diretta, indiretta e di vita indipendente – rivolte a persone con gravi disabilità e/o non autosufficienza – che dovrebbero rientrare nella nozione di “assistenza tutelare” (e dunque nelle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale)  ne sono invece alcune volte  escluse arbitrariamente in contraddizione con la normativa nazionale che vale per tutte le persone con disabilità e/o non autosufficienti, nonché per i malati e per tutte la fasce di età. Queste sono attività che se non supportate, addirittura, lascerebbero la persona non solo emarginata ma anche in uno stato di completo “abbandono” con un degrado fisico e psichico della persona in violazione dei più elementari diritti. Pertanto, riconducono al benessere fisico e psichico della persona. Si fa fatica in generale  a definire attività di questo tipo  “sociali” già per la pesante parte a carico  degli Utenti e/o Comuni rispetto all’area integrata socio-sanitaria che è quella ove – almeno in parte –  si può utilizzare il concetto dei LEA. Figuriamoci se come nel caso dell’assistenza diretta, indiretta e della vita indipendente queste sono – a volte – discrezionalmente  considerate e scaricate interamente nel settore sociale  e dunque rimesse alle risorse disponibili – derivanti dal Fondo Sociale Nazionale non autosufficienze istituito dalla legge finanziaria 2007 (legge 296 del 2006, articolo 1, commi 1264 e 1265) – dell’Ente Gestore delle Funzioni Assistenziali (Comune). Oltretutto,  il Fondo Sanitario Nazionale non autosufficienze è aggiuntivo e complementare alle risorse  già destinate dal Fondo sanitario Nazionale agli interventi  a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni e delle autonomie locali.  Il FNA    dunque,  non  sostituisce quello sanitario nazionale ma lo integra, è più ridotto e destinato esclusivamente ai Comuni per  coprire   i costi di “rilevanza sociale” dell’assistenza socio-sanitaria ma  pure le prestazioni accollate indebitamente in maniera totale ai Comuni!  (cfr.  art. 2, comma 2 del decreto interministeriale di riparto del 12 ottobre 2007). Si tratta poi di un Fondo non strutturale e per il quale ogni anno non c’è certezza di riconferma.

Inoltre, al fine di quantificare la prevalenza sanitaria o sociale di questi interventi, i soggetti interessati  alle prestazioni di assistenza sono sottoposti alla verifica della loro percentuale di “gravità” da parte di apposite  Commissioni. Perciò, la compartecipazione del SSN  è  garantita   ai soggetti  con disabilità  “grave” o di “particolare gravità”  riconosciuta ai sensi della Legge n. 104/92 art. 3 co e valutati come “gravi” da parte di queste unità multidisciplinari  ai sensi dell’art. 4 della legge 104/92 e tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 19 della legge 104/92. La Commissione multidisciplinare (sociale e sanitaria) a sua discrezione può considerare l’assistenza diretta, indiretta e di vita indipendente con carico suddiviso tra ASL e Comune – come tutte le prestazioni socio-sanitarie di assistenza tutelare –  così come invece,  completamente a carico del Comune valutandole in regime socio assistenziale …….E nella realtà troppo spesso purtroppo, si arriva a non riconoscere in alcun  modo entro i LEA l’assistenza diretta, indiretta e di vita indipendente perché viste   esclusivamente – e illegittimamente – come un problema sociale.  Solo per le prestazioni degli utenti classificati “gravissimi” c’è la certezza dell’erogazione diretta  della Regione in regime  socio sanitario.   Le Regioni applicano le forme di assistenza secondo norme e regolamentazioni proprie.

Evidentemente il concetto di “gravissimi” lo si fonda sulla categoria  “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria (sulla scia di quanto disposto dai due decreti di Riforma del SSN: d.lgs. 502 del 1992d.lgs. del 1999) di fase “intensiva” di competenza soprattutto sanitaria perché comportano un impegno riabilitativo  specialistico di tipo diagnostico e terapeutico, di elevata complessità,  di durata breve e definita. Le  modalità operative sono residenziali, semiresidenziali, ambulatoriali e domiciliari. In particolare,   il decreto Bindi del 1999 nell’ambito “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria individua anche quelle in fase “estensiva”  che comportano una presa in carico specifica per un periodo medio-lungo prestabilito perciò, anche se l’ impegno terapeutico è minore, sono anch’esse di competenza maggiormente sanitaria.  Mentre nel tipo di “lungo assistenza” prevale – discutibilmente – la “competenza sociale” perché l’intervento è visto come volto a favorire la vita sociale attraverso il mantenimento della migliore autonomia funzionale possibile e il rallentamento del suo degenerare. Comunque negli obiettivi del decreto, tutti questi tipi di interventi  sono rivolti a soggetti “di particolare gravità” al fine di garantirgli il diritto ad essere curati attraverso  risposte celeri e certezza del finanziamento (per la parte coperta dal SSN che deve rientrare nei LEA) della prestazione.

Dai decreti di Riforma del SSN ai d.P.C.M. di attuazione: l’evidenza normativa dell’illegittimità dell’esclusione totale attraverso la deportazione totale all’area socio-assistenziale e l’esclusione parziale che resta

Oltre alla nuova categoria delle prestazioni socio-sanitarie di elevata intensità, in generale il decreto Bindi ripuntualizza la categoria delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” (nate con il decreto Craxi del 1985) – ossia  le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite –   di competenza prevalentemente sanitaria e a carico della ASL. Altresì definisce  anche la categoria  delle “prestazioni sociali a rilievo sanitario” cioè “le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”  la cui competenza è soprattutto sociale e dunque  richiedono un maggiore impegno dei Comuni (Enti gestori delle funzioni socio assistenziali) con compartecipazione da parte dell’utente  e minori costi per le Aziende Sanitarie (SSN) .

E’ da notare che in nessuna delle categorizzazioni del decreto si evidenzia un’ ipotesi a completo carico dell’area sociale omettendo del tutto il SSN:  al massimo, si arriva ad ipotizzare una prevalenza di carico di un’area rispetto all’altra.  Oltretutto, le attività specifiche delle “aree materno infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da H.I.V. e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico degenerative rientrano nelle “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria di livello “intensivo” o “estensivo” e dunque, il carico deve gravare maggiormente sul Servizio Sanitario Nazionale”. Inoltre, l’art. 1 del d.lgs. n. 229 del 1999 (che sostituisce Il comma 7 dell.’art.1 del d.lgs. n. 502 del 1992)  fa rientrare nel concetto di assistenza sanitaria i servizi e le prestazioni sanitarie che hanno, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, certezze scientifiche di un significativo beneficio  rispetto alla  salute, a livello individuale o collettivo, anche quando le  risorse impiegate per garantire i livelli essenziali e uniformi di assistenza  risultano enormi.  

A seguire invece, in  attuazione di quanto previsto dai decreti legislativi di Riforma 502/92 e 229/99,   i  d.P.C.M. 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie) e d.P.C.M. 29 novembre  2001 (Definizione dei LEA) – all’elencazione delle loro Tabelle allegate  – hanno scaricato addosso agli Utenti e/o Comuni il peso eccessivo di tutta una serie di prestazioni che (come disposto nelle categorie del decreto Bindi) dovevano rientrare maggiormente nei LEA e derivare dal Fondo Sanitario Nazionale. La parte sociale richiamata nei LEA dal decreto del 29 novembre 2001 – come già detto e anche guardando estensivamente a  seguito della finanziaria 2003 – deve essere considerata non scissa ma unitamente alle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie. In questo senso, è interessante notare anche che il d.P.C.M 14.02.2001  (riferimento normativo fondamentale del   d.P.C.M  29/11/2001 come specificato all’allegato 3, lt. d e riletto alla luce della finanziaria 2003) assegna e mette a carico delle ASL l’insieme delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”, dunque, si può dedurre,  anche quelle non caratterizzate  da elevata integrazione. Inoltre, questi interventi sono personalizzati, di durata medio/lunga e sono erogati in vari regimi tra i quali risulta anche quello domiciliare (oltre a quello ambulatoriale, o nelle strutture residenziali e semiresidenziali).

Quell’esigibilità “completa” dei diritti da riconquistare che non ammette “carenza di motivazione”

Da quanto detto finora, appare evidente che,  dal 1985 in poi,  sono state “selezionate” alcune categorie di persone sottraendogli il pieno godimento di diritti umani fondamentali attraverso la “deportazione” in un’area “appositamente” creata che di fatto ha solo creato nel tempo esclusioni parziali o totali dalla protezione Costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 32 (diritto alla salute) e dalle garanzie rivolte a tutti i cittadini dalla legge 833 del 1978 (prima Riforma del SSN e sua Istituzione).

La politica e le esigenze di risparmio economico hanno prevalso sui diritti innati e sacrosanti di alcuni. La divisione delle competenze tra Stato, Regioni e Comuni ha favorito solo confusione, mano libera negli abusi, e lo scaricare le esigenze vitali delle persone più fragili dagli uni agli altri, affidandole il più delle volte  a fondi incerti, esigui e discrezionali. Di fatto – inconsapevolmente per gli interessati – tutto questo è avvenuto pian piano, quasi silenziosamente. Una vera e propria strategia di soppressione dei più deboli e di espulsione dai diritti attraverso una “selezione” che non possiamo permettere e che con la memoria riporta a tempi bui dove alcune persone erano considerate indegne di vivere.

Non dobbiamo dimenticare che prima del 1985, le categorie interessate da quella che è stata una deportazione in un limbo infame (e non un trasferimento ad un’utile  area delle prestazioni) avevano la piena esigibilità dei diritti successivamente frammentati e negati parzialmente o totalmente. Dunque, le prestazioni socio-sanitarie devono essere diritti da garantire completamente perché collegati ad esigenze vitali elementari di alcune fasce di persone deboli e discriminate perché selezionate appositamente al solo fine di contenere la spesa. E come si è visto finora (secondo anche quanto ribadito dai TAR e dalla Corte Costituzionale) le politiche di risparmio non possono comprimere i diritti umani.

Occorre riprendersi  i diritti sottratti a volte con una parvenza legittima ma discutibile, altre volte invece  in modo sfacciatamente illegittimo. A questo proposito potrebbe raggiungere lo scopo un’azione collettiva – così come avvenuto già con i ricorsi contro il nuovo ISEE – tenendo conto di quanto ricostruito finora in questo articolo per acquisire coscienza degli abusi che ci sono stati e tutt’ora ci sono, nonché della deriva che si potrebbe raggiungere se si continuerà ad accettare passivi tutto questo. Si tratta di  un argomento che riguarda tutti perché come visto, la non autosufficienza e le situazioni di gravità o malattia riguarda una gran quantità e varietà di persone. Di fatto tutte le categorie selezionate sono chiamate in causa – nessuno se ne può tirar fuori – perché tutte sono state deportate nell’area di abuso escludendole dalle tutele  vuoi parzialmente, vuoi totalmente.

Prima di scrivere questo articolo – frutto della lettura delle sentenze Piemontesi ed anche  di un lavoro di ricerca nonché di riflessione – ero un po’ titubante se procedere o meno. Mi sembrava un lavoro superfluo e che non avrei potuto dare molto di più di quello che già si “sapeva”. Poi ho iniziato ad ascoltare alcune testimonianze dirette dalle quali sono emerse le situazioni reali di abuso (storie di singoli) e una certa confusione nel capire se la propria esigenza rientrava in questa o quella legge oppure in questo o quell’altro tipo di assistenza. Questa mancanza di consapevolezza mi sembrava assurda e ingiusta perché le persone si trovano catapultate e schiacciate  nelle pressanti esigenze di vita quotidiana e negli iter burocratici. Le leggi se le ritrovano addosso con tutto il loro impatto negativo e nessuno ha interesse a spiegare –  o è meglio dire che  forse più di qualcuno ha interesse che gli interessati continuino a ignorare – come sono arrivati  a quel tipo di situazione e se davvero nulla si può fare per contrastare certi tipi di abusi. Partendo dalle sentenze Piemontesi e procedendo sistematicamente con una ricostruzione normativa e storica, penso che si può comprendere meglio e agire in giudizio  collettivamente per far si che le cose cambino.

Augurandomi semplicemente di essere stata – un minimo –  utile affinché molti possano prendere il coraggio e la consapevolezza di lottare per riconquistare i diritti sottratti.  

Eleonora Campus

Aggiornato in data 23 aprile 2015

 

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Assistenza e Discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia

Assistenza e Discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia

Autore: Eleonora Campus

Per la prima volta in Italia una  sentenza del Tribunale Civile di Ascoli Piceno (cfr. qui: Sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013), ha reso effettiva la legge 67/06che tutela le persone con disabilità dalle discriminazioni – nel settore sociale. La Corte ha  riconosciuto la presenza di una discriminazione ogni volta che alla persona non vengano erogati dei “servizi sociali” “adeguati” e cioè,  rispondenti  alle sue specifiche  esigenze. Nello specifico, si tratta delle prestazioni destinate all’assistenza alla persona.

Il caso è quello di una donna con disabilità grave,  alla quale è stato negato dal Comune di Ascoli Piceno – per 8 lunghi anni – il diritto all’assistenza indiretta.  La donna ha perciò agito per vie legali contro il Comune, che si è difeso con varie  motivazioni. Di conseguenza il Tribunale ha valutato le ragioni di entrambe le parti e partendo dalla Convenzione ONU sulle persone con disabilità  (ratificata in Italia con legge 18 del 2009) – facendo particolare riferimento  al concetto di “accomodamento ragionevole” (artt. 2 e 5),  ha riconosciuto la discriminazione  e  condannato il Comune a risarcire con 20.000 euro la donna ai sensi della legge nazionale 67/06 (artt. 2 e 3).   

Indubbiamente la sentenza è importante perché, guardando oltre al caso particolare,  ha messo in luce che la legge italiana antidiscriminazione ha molti ambiti di applicazione. Inoltre,  ha  aperto la strada a futuri ricorsi sulla base di questo precedente  che ci parla di “diritti umani” resi effettivi dalla giustizia laddove il decisore pubblico li calpesta. Ma le sentenze vanno lette in maniera minuziosa, per individuare oltre ai punti di forza anche quelli di debolezza. La non discriminazione è fatta di passi avanti ma occorre essere sempre vigili per evitare che i singoli casi diventino eccezioni  o che si torni indietro.  Ecco dunque l’analisi – dal mio punto di vista – della decisione del Tribunale.

ANALISI DEI PUNTI DELL’AZIONE LEGALE ACCOLTI DAL TRIBUNALE CIVILE

1.1 Primo argomento del Comune: la negazione dell’assistenza indiretta sulla base della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004.

L’Ente Comunale  si è difeso motivando che  ha negato l’assistenza –  a seguito e sulla  base della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004 (cfr. qui) – perché l’avrebbe garantita un familiare, il marito della donna,  assistendola  lui stesso. La Delibera infatti riconosce l’assistenza “solo se svolta da estranei” vale a dire, da persone non appartenenti al nucleo familiare.

1.1.1  Il   Tribunale: l’applicazione cieca della Delibera Comunale n. 63 del 19 marzo 2004

Secondo il Tribunale,  la donna “per la particolare condizione legata alla sua disabilità, fortemente limitante”, ha bisogno indiscutibilmente  di assistenza domiciliare indiretta.  Per la Corte,  la Deliberazione di Giunta n. 63 del 19.03.2004 definisce che il contributo economico per assistenza domiciliare indiretta, offerto dal Comune anche alla donna,  ha come punto dolente  lo scopo  di garantire un sostegno economico ai soggetti che vivono  da soli o con familiari conviventi non in grado di occuparsi di loro  per motivi di salute certificabili o impegni di lavoro. Si tratta dunque di un vincolo di pagare un familiare non convivente o un operatore esterno di fiducia “scelto” dalla stessa persona con disabilità, per “garantire una migliore qualità della vita e la permanenza all’interno dell’abitazione”. Inoltre, specifica la Corte, il contributo è ammesso per persone laddove “malgrado la percezione di redditi da parte dei  familiari – con impegni di lavoro – renda più agevole, nell’ambito del loro dovere di provvedere al mantenimento ed alla cura del soggetto con disabilità convivente, il pagamento del personale destinato all’assistenza della persona, questo contributo economico è stato negato ad un nucleo indigente con il marito disposto ad assistere la moglie”  (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).

Per noi che leggiamo, una scelta libera è tale in assoluto. Non si può parlare di scelta se questa viene condizionata da un vincolo. La qualità della propria vita si sceglie da se. In Italia oltretutto ci sono anche delle leggi ai sensi delle quali i familiari possono essere assunti come dipendenti nel caso vi siano in famiglia disabili gravi. In questa situazione – secondo la Corte –  il Comune si è basato in maniera cieca sulla Delibera 63 del 2004, dato la donna aveva scelto come operatore di fiducia convivente il marito ma  la presenza fisica di questi in casa gli ha comportato la negazione dell’assistenza. Ne consegue “che il marito poteva occuparsi della moglie ma senza disporre di mezzi per far fronte alle sue esigenze in quanto costretto a lasciare il lavoro per assisterla e unico familiare “abile” al lavoro”. Ciò vuol dire  che “la Delibera non tiene conto tra i beneficiari le persone che abbiano il supporto di un familiare convivente presupponendo che questi abbia il “dovere morale” di dare assistenza nella gestione della vita del soggetto con disabilità “in situazione di particolare gravità” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).  La Corte ha perciò  guardato al caso specifico,   tenendo  conto anche delle personali difficoltà economiche della donna e della sua impossibilità  sia di produrre reddito da se  da destinare alla propria assistenza, sia di produrlo da parte del suo nucleo familiare  definito “al limite dell’indigenza”. Motivo per il  quale poi  il Comune, a questo nucleo,  negli anni ha destinato altre risorse economiche per far fronte alle “elementari esigenze di vita”. Il Tribunale evidenzia  che ad una situazione ancor più bisognosa di tutela non si è data una risposta adeguata non adottando dei “ragionevoli accomodamenti” che potevano essere presi in considerazione data la ratifica della Convenzione ONU, consentendo che il contributo fosse dato al marito disoccupato per consentire alla donna di vivere dignitosamente. Attraverso un atto apparentemente neutro (discriminazione indiretta) si è messa una persona con disabilità in posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.

1.1.1.1 Osservazioni: gli elementi positivi nella risposta del Tribunale

Il Tribunale evidenzia l’ingiustizia della Delibera 63 del 2004, applicata in maniera cieca e senza tener conto dell’impatto che poteva avere nella vita quotidiana della donna  rispetto alle sue specifiche esigenze. Non solo: il Tribunale sottolinea che di fronte a situazioni bisognose di servizi essenziali, il Comune “scarica” addosso ai familiari conviventi ogni tipo di onere materiale sulla base del  “dovere morale” di dare assistenza alla persona con disabilità. Una mentalità dell’abbandono,  che da sempre esiste ed è dura a morire. Una moralità spesso richiamata perché a costo zero – non fornendo i mezzi per affrontare la situazione –  la Pubblica Amministrazione  si solleva dal suo dovere  e , oltretutto, non riconoscendo  il lavoro di cura del familiare convivente –  dunque presente 24 ore per ogni esigenza – con pari dignità degli altri lavoratori. Quel “dovere morale” il familiare convivente lo svolge  ampiamente per tutto l’arco della sua vita, ogni santo giorno, e per tutto  l’arco della giornata . Perché le persone con disabilità non hanno esigenze scandite da orari fissi e ridotti: la condizione della disabilità coinvolge continuamente se stesse e chi gli sta intorno. Anche compensare una parte del lavoro continuo di assistenza, è un diritto sacrosanto e non solo un dovere morale.

1.1.1.2  Osservazioni: potenziali criticità nella risposta del Tribunale

C’è però un aspetto potenzialmente critico da sottolineare nella risposta del Tribunale. Si premette  che è chiaro  che quello sotto giudizio è un caso specifico,  e dunque la Corte ha dovuto tener conto delle difficoltà della donna a produrre reddito sia da parte sua  che da parte del suo nucleo familiare definito “al limite dell’indigenza” tanto da sopravvivere con altri sussidi dati dal  Comune.  Ma è altrettanto evidente  che nell’accogliere la richiesta di supporto, la Corte ha sottolineato l’impossibilità di tutto il nucleo in questione,  a “produrre reddito da destinare all’assistenza” definendo la situazione ancor più bisognosa rispetto ad altri nuclei con persone con disabilità ai cui familiari lavoratori,  effettivamente,  la delibera Comunale 63 del 2004 concede l’erogazione economica.  Una considerazione simile ha un grande errore di fondo e contiene  un messaggio che non deve  passare, proprio  partendo da questo caso che per la prima volta accerta la discriminazione nel settore sociale. Infatti, il rischio  è che questa situazione  specifica  possa diventare un “modello antidiscriminatorio” esteso a tutti, che collega il diritto all’assistenza indiretta all’incapacità lavorativa della persona con disabilità e alla povertà assoluta del suo nucleo familiare. Mettere le persone con disabilità o affini nella condizione di scegliere se lavorare, con la consapevolezza  di non avere alcun supporto secondo certe politiche, o poggiarsi esclusivamente sul welfare, sapendo di avere solo a quel punto un sostegno essenziale, è sia   immorale che discriminatorio. La discriminazione sta  rispetto ai nuclei composti esclusivamente da persone non disabili perciò,   il paragone il giudice lo avrebbe dovuto fare  in relazione a questi nuclei.  Il motivo è  che  la   produzione di reddito da lavoro – nei nuclei familiari con persone con disabilità come in qualunque altro – serve ad affrontare le esigenze di vita quotidiana legate al sostentamento.  E tutte le persone  con disabilità gravi o con in situazioni di particolare gravità  devono essere aiutate nelle esigenze di vita essenziali (alzarsi, lavarsi, vestirsi, mangiare, uscire) che comportano costi economici (ma anche fisici e morali) che portano spese maggiori rispetto alle persone non disabili che non hanno le stesse necessità.  

Un reddito da lavoro non può sopportare i costi dell’assistenza che è un diritto “essenziale “ che vale sia per le persone con disabilità  in povertà assoluta,  sia per quelle non indigenti ma che paradossalmente potrebbero diventarlo a loro volta. Tanto è vero che, laddove di fatto si ostacolano determinate fasce della popolazione  ad una partecipazione attiva ed effettiva al tessuto lavorativo della società, bloccando l’accesso alle prestazioni e facendo ricadere ogni onere sulle entrate da lavoro e quindi destinate al  sostentamento, ci si può trovare a non farcela più materialmente, moralmente e fisicamente ed ad essere costretti a diventare solo consumatori di welfare.  Quindi anche in questi casi il rischio di emarginazione ed esclusione sociale è elevato.

A questo punto potrebbe saltar fuori il solito discorso puerile “e allora i ricchi…?”: anche in presenza di reddito da lavoro più elevato, la persona che lo percepisce e lo dichiara regolarmente,  paga (o ha pagato se  è andata in pensione alla fine del percorso lavorativo) tasse in proporzione per garantire le  risorse per se e per  tutti gli aventi diritto. Perciò di fronte a bisogni di vita essenziali, ha il diritto di godere delle  prestazioni a sua volta. Anche perché additare i redditi da lavoro da nababbi, e  non se ne vedono molti, in genere è uno spot propagandistico usato dal decisore pubblico  per tagliare  in maniera estesa ed aggressiva  applicando soglie minime  di accesso rasenti l’indigenza.  Tutti questi aspetti sono ancora   più evidenti se chi produce reddito da lavoro è la persona disabile stessa. Oltre al dispendio economico evidenziato ed anche   di energie giornaliere suo e di chi gli sta intorno  molto spesso,  infatti, non essendoci mezzi pubblici accessibili  ed essendo quelli di categoria carenti oppure con possibilità d’uso  legata sempre al reddito, la persona con disabilità deve sopportare ulteriori  costi economici del trasporto giornaliero con l’autovettura privata. Si tratta perciò sempre di spese da sostenere con le entrate  da lavoro.   Le persone con disabilità e i loro nuclei familiari sono dunque anche  produttori  di un welfare – versamento dei contributi – al quale paradossalmente non possono  accedere di fronte al metro della completa indigenza o anche delle soglie minime. Una contraddizione che comunque già avviene nella realtà giornaliera attraverso lo strumento dell’ISEE. Ma di cosa si tratta?

1.1.1.3  L’ISEE: uno strumento discriminatorio che già esclude molti  aventi diritto produttori di welfare

Un altro aspetto da analizzare è che  l’erogazione del contributo economico – in generale –  da parte del Comune “varia in base ai valori ISEE relativi al nucleo familiare del disabile” (circostanze ribadite anche nel caso di Ascoli e che possiamo leggere anche in un parere del difensore civico regionale  rispetto al caso (cfr. qui per il parere).  Attraverso lo strumento dell’ISEE, si definiscono dei tetti di reddito al di sopra dei quali non si può accedere alle prestazioni sociali.

Guardando alla sentenza di Ascoli in maniera estensiva, a questo punto possiamo iniziare a pensare di far  riconoscere a maggior ragione questo  strumento come discriminatorio.  E’ infatti la sentenza del Comune Marchigiano  che comunque – al di la di alcune potenziali criticità analizzate in questo scritto – apre la via alla discriminazione nel settore sociale.   

Perché lo strumento è discriminatorio dunque?: l’ISEE fissa delle soglie di accesso alle prestazioni talmente basse da rasentare il ridicolo e l’abuso. Con un criterio da “tagli lineari”, estromette ed emargina un grandissimo numero di persone titolari un diritto soggettivo essenziale. Una discriminazione perpetrata ulteriormente con il nuovo ISEE dove viene considerata reddito ogni forma di erogazione – indennità comprese – data alla persona con disabilità.   In molti casi sono soglie rimesse alla discrezione degli Enti Locali. E proprio nei settori di diritti essenziali – come anche quelli dell’assistenza – dove, coerentemente con quanto fino ad ora spiegato, non dovrebbe proprio esserci un tetto di accesso.

1.2 Secondo  argomento del Comune: il vizio formale dell’azione legale della donna di Ascoli

L’Ente Comunale ha obiettato  la legittimità  rispetto alla forma dell’azione legale della donna, perché quando è stata avviata, era ancora sotto giudizio del Tribunale la questione della legittimità proprio della delibera 63 del 19/03/2004,

1.2.1 La risposta del Tribunale: una lezione positiva di diritti umani al di della burocrazia ottusa

Il Tribunale   ha chiarito che la tutela  predisposta dagli art. 2 e 3 della L. 67/2006 va valutata non tenendo conto completamente e ciecamente di  verifiche “formali” ma considerando  un altro  aspetto: anche di fronte a provvedimenti ed  attività amministrative legittime da parte della Pubblica Amministrazione (del Comune in questo caso), se da queste ultime  la persona con disabilità ne trae “particolari svantaggi” nella vita reale proprio a causa della sua condizione di disabilità, allora si ha discriminazione. Secondo il Tribunale si tratta di una diversità di punti di partenza da cui valutare la situazione,  che fa cadere l’obiezione formale  del Comune di Ascoli Piceno. Il Tribunale infatti, mette al centro la persona umana e  fa riferimento  all’art. 2 della legge 67 del 2006 e alla definizione di discriminazione diretta e discriminazione indiretta: “Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata (..) sarebbe trattata una  persona non disabile in situazione analoga. Si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone” (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013). 

Di più: la Corte guarda anche  oltre confine facendo  riferimento agli 2 c 5 della Convenzione ONU sui dirìtti umani delle persone con disabilità,  per un’altra discriminazione che deriva dal rifiuto – da parte del Comune –  di un “accomodamento ragionevole”, e cioè di  un mezzo  inteso come tutte “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati (che non impongono un onère sproporzionato o eccessivo da valutare non tanto in termini economici, ma di adeguatezza del mezzo – cioè dell’adattamento – al fine – esigenza particolare della persona) adottati, ove ve ne sia necessità, in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulla base dell’eguaglianza con gli altri.”

Ed è in questo accomodamento che devono unirsi   sia a monte  le attività e gli atti diretti a tutelare gli interessi di tutte le persone con disabilità, sia a valle le azioni e i provvedimenti che si rendano necessari riguardo la particolare situazione in cui si trovi uno specifico soggetto con disabilità, allo scopo di garantirgli il godimento “dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo” (art. 2 Conv. ONU).

Il Comune invece, che dovrebbe essere l’Ente più vicino al cittadino e conoscere meglio le sue esigenze, si arrocca dietro un presunto vizio di forma di una Delibera ingiusta,  che lascia non poche perplessità  e sacrifica la persona e i suoi diritti  alla burocrazia ottusa e ignorante in materia di  diritti umani. Ed è proprio il Tribunale che – a mio parere – evidenzia i limiti e  la mancata preparazione dell’Ente ricordando  come dovrebbe essere orientata la sua azione morale – nel favorire una nuova coscienza sociale pubblica –  e pratica. Infatti,  la Corte ricorda di  “valutare nel caso l’attività amministrativa (del Comune) per verificare se discriminatoria o meno, richiamando a una “coscienza sociale pubblica” che guardi le persone con disabilità non come soggetti da proteggere nella loro diversità ma da mettere in condizione di godere degli ambiti di tutela riconosciti ad ogni individuo, mediante l’adozione delle più adeguate misure. Un concetto che viene dall’ambito soprannazionale – e che ancora sfugge alla  nostra tradizione giuridica –  che però si scontra con le scarse risorse di cui dispongono le Pubbliche Amministrazioni”. I diritti umani come da Convenzione sono definiti dal Tribunale come  di “Importanza basilare e di immediata applicazione precettiva” vale a dire,  che devono essere applicati immediatamente e obbligatoriamente senza bisogno di altre norme (cfr. qui: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013).  .

Un sorriso amaro: leggere  che alla nostra tradizione giuridica ancora sfugge un concetto da diversi anni inserito nella legislazione sovranazionale, recepita con legge statale, rende chiara ancor di più l’assoluta ignoranza – o la volontà di ignorare certe norme – del decisore pubblico 

1.3 Terzo   argomento del Comune: le risorse scarse

L’Ente Comunale ha negato l’assistenza  per mancanza di risorse.

1.3.1 Il Tribunale: le risorse scarse non possono essere un motivo per generare esclusione sociale

Anche in caso di risorse scarse, gli Enti Pubblici sono obbligati – in situazioni di disagio – a trovare un “accomodamento ragionevole per non creare esclusione sociale”. Nel caso specifico si sarebbe trattato di un accomodamento che il Comune non avrebbe mai cercato di trovare, continuando a rifiutare alla donna l’assistenza domiciliare indiretta attraverso la collaborazione del marito anche in epoca successiva all’entrata in vigore in Italia – con legge 18 del 2009 – della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ai sensi delle quali occorreva che il Comune rivedesse  i criteri di assegnazione del beneficio economico attraverso gli “accomodamenti ragionevoli” che avrebbero consentito alla donna di vivere in maniera dignitosa la propria esistenza.  Da ricordare che in generale – come precedentemente accennato – la mancata predisposizione dell’”accomodamento ragionevole” costituisce  discriminazione perché  una persona non supportata in maniera adeguata  si viene a trovare esclusa socialmente  ed emarginata.  E questo tipo di discriminazione è  vietata sia dalla Convenzione ONU che dalla normativa nazionale (legge 67/2006).

2.1 L’intervento  della Regione Marche

La vicenda della donna, ad un certo punto ha avuto un piccolo passo avanti perché  il ruolo professionale  del marito è stato riconosciuto dalla Regione Marche che se ne è assunta l’onere  nel 2010 inserendo la famiglia in un progetto di Vita indipendente con una partecipazione alla spesa del Comune di Ascoli Piceno per il 25%.  Nella “Vita indipendente” i fondi vengono dati direttamente alla persona con disabilità che organizza in modo autonomo  la propria assistenza. In questo senso è stato interessante leggere il  parere del difensore civico regionale (cfr. qui)  perché ammette  con certezza che l’assistenza indiretta erogata in tutto o in parte su fondi Regionali ai sensi della Legge Regionale 18/96 (modificata e integrata dalla Legge Regionale 28/2000)  riguarda sicuramente anche prestazioni date da familiari conviventi. Inoltre, ricorda che l’art. 12 della L.R.  18/2006 “mira a favorire la permanenza della persona in situazione di disabilità nel proprio nucleo familiare e nell’ambiente sociale e la Regione concorre nelle spese sostenute da Comuni singoli o associati e dalle Comunità Montane per garantire il servizio di assistenza domiciliare “prioritariamente a persone in situazione di disabilità gravissima” in attuazione della legge 162/1998.   Però, ribadisce che quando il Comune eroga contributi con fondi propri ha una libera valutazione sulle proprie politiche – sulla base delle norme che può darsi da se –   e ricollega questa libertà di azione proprio alla delibera 63 del 19.03.2004 che avrebbe “l’obiettivo di garantire migliore qualità della vita attraverso la presenza in casa di un operatore”.  

Insomma, il difensore civico regionale nel suo parere non entra  nell’ingiusta contraddizione del Comune tra la scelta (negare l’assistenza perché garantita da un familiare) e l’obiettivo da conseguire (esigenze reali e specifiche della persona che ha diritto di scegliere da chi farsi assistere che  la propria qualità della vita)  sulla base della  delibera 63 del 2004. Ammette però che potrebbe essere discutibile la coerenza della scelta del Comune , ma non rientra nelle sue competenze affrontare la questione.   Inoltre,  sottolinea la delicatezza della posizione del Comune   proprio perché  le scelte che deve compiere non possono non tener conto della discriminazione  e del principio di non discriminare sancito dalla legge 67 del 2006. Perciò, chiarisce un aspetto importante perché  anche se  non entra nella questione, ricorda che le norme che il Comune può darsi da se non devono essere in contraddizione con le “norme positive di rango superiore” e dunque, in questo caso con la legge 67 del 2006 che è dello Stato e riguarda la tutela di diritti pubblici soggettivi. E quando si parla di  diritti civili la legge statale – nell’ambito delle sue competenze esclusive –  ha preminenza sulle possibili ingiustizie degli atti emanati dall’Ente Comunale.  

2.1.1 Una criticità delle Leggi Regionali 18/96 e 28/2000

In entrambe le Leggi della Regione Piemonte (18/96 e 28/00),  è  usata  più volte la nozione di “gravissimo”. E’ da sottolineare – anche guardando  la data di emanazione delle rispettive leggi locali –  che la Legge Statale 104 del 1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)  parla di “particolare gravità” e “situazione di gravità”. E la successiva Legge nazionale  162 del 1998  (Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, concernenti misure di sostegno in favore di persone con handicap grave) parla di “handicap grave” o di “situazioni di particolare gravità”.

La licenza linguistica delle Leggi Regionali non è un semplice fatto grammaticale. Sull’uso di quell’ “issimo” il dibattito – anche attuale –  è rovente per due motivi. Il primo è che molte persone con disabilità ritengono che l’uso di “gravissimo” porta ad una ulteriore rigidità ed arbitrio nell’accesso ai diritti perché non lascia spazio a una valutazione di pari dignità a situazioni diverse ma comunque gravi. Inoltre,  ritengono che  il termine “gravissimo” nelle norme nazionali di riferimento non esiste e dunque è illegittimo. E a ben vedere, considerata anche l’approssimatività di conoscenze, competenze  ed azioni  degli Enti Locali non è così assurdo porsi il problema. Anche perché l’abuso il più delle volte si ripercuote su tutte le persone con disabilità, , “gravissimi” compresi se proprio vogliamo usare questa parola. E’ accaduto per la donna di Ascoli ma quotidianamente accade ogni volta che gli Enti Pubblici non mantengono parola e non rispettano le leggi tagliando risorse  senza guardare in faccia a nessuno. Se poi pensiamo che il metro di valutazione della Convenzione ONU sulle persone con disabilità, non è intrappolare la persona in certe categorie di “gravità” ma è quello del bisogno individuale del soggetto, cioè il suo modo di funzionare in relazione  alla sua interazione con l’ambiente, la cosa è ancora più illegittima.  

3.1 Un risarcimento economico,  fisico e morale: l’impatto patologico sulla sfera psico-fisica della persona

Il Tribunale ha definito il Risarcimento da parte del Comune per l’assistenza domiciliare indiretta, considerando  un arrotondamento anche per lo “stress” – cioè per l’effetto negativo psico-somatico – subito dalla donna a causa della discriminazione di cui è stata vittima. Lo stress dunque si ripercuote sulla salute mentale ma anche fisica della persona. Una premessa: la persona è una unica entità fatta di psiche, anima per i credenti, e corpo. Non si possono separare gli aspetti che fanno di una persona una “persona umana”. Tutti questi aspetti interagiscono fra loro. E’ importante premettere ciò perché  le prestazioni assistenziali – LIVEAS (Livelli Essenziali di Assistenza Sociale) che sono essenziali alla vita della persona con disabilità – non rientrano nei  LEA (Livelli Essenziali delle Prestazioni)  garantiti dal Sistema Sanitario Nazionale a chiunque ne ha bisogno, ma sono state demandate alla Legislazione degli Enti Locali.  Una Legislazione che però ricollega il diritto alle risorse di bilancio e che  non è omogenea su tutto il territorio nazionale  perché rimessa alle singole amministrazioni locali. Non dimentichiamo che la Costituzione stabilisce che il legislatore statale ha competenza legislativa esclusiva  per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (art. 117, comma 2, lett. M, Cost.).  Trascurare dunque i diritti sociali – dove rientra anche l’assistenza – separandoli (LIVEAS), non determinandoli  e rimettendoli in concreto al decisore locale, che comunque ha fallito e creato forti disuguaglianze, è già contestabile. Al di la dell’aspetto normativo poi, l’esperienza ha mostrato l’inefficacia anche culturale e sostanziale di questa divisione. Infatti, da più parti si è sottolineato che separare la sfera sanitaria dalla sfera sociale ha permesso di far uscire le persone con disabilità da una visione di “malattia”. Perché la disabilità non deriva necessariamente da una malattia. Indubbiamente esiste anche la malattia ma è solo un aspetto del mondo della disabilità, non il criterio unico con cui guardare alle persone con disabilità. Eppure il tempo ha mostrato che questa “separazione” si è trasformata solo in un’arma per tagliare risorse ed escludere moltissimi individui dal godimento dei diritti. E se la persona è un unico insieme di tutte le sue parti, allora è giusto che il suo bisogno venga rivendicato con forza come un diritto che deve essere garantito sempre e comunque. Deve quindi essere garantito come LEA. In questo senso ci può far riflettere anche il risarcimento per stress, che –  a mio avviso – è importantissimo come “precedente” per portare avanti questa battaglia.  

ANALISI DI DUE PUNTI DELL’AZIONE LEGALE  NON ACCOLTI DAL TRIBUNALE CIVILE

4.1 Primo punto del ricorso non accolto dal Tribunale: il sistema delle Cooperative  non si scalfisce…?

Nella sua azione legale, la donna con disabilità grave, ha richiesto anche un risarcimento per la mancata prestazione di assistenza domiciliare diretta (cioè quella attraverso la quale l’operatore è fornito da cooperative dell’Ente Pubblico) – nell’anno 2010 – in maniera compatibile con le sue esigenze, Infatti, erano state concesse dal Comune prestazioni per  un massimo di  8 ore settimanali, considerate  però insufficienti a soddisfare le necessità dell’interessata.  

Il Tribunale ha però stabilito  che  “non è discriminatoria la mancata prestazione di assistenza domiciliare diretta – offerta per un massimo di 8 ore settimanali – perché è un beneficio da stabilire nel rispetto “del pari diritto degli altri richiedenti e che per sua specifica finalità (cura dell’igiene personale e degli ambienti domestici) non  si può convertire in contributo economico”. Il  rigetto del Tribunale rispetto a questo specifico aspetto pone diverse domande e perplessità.

Prima perplessità: il tetto massimo di ore concesse

Innanzitutto, partire da un “massimo di 8 ore settimanali”, significa considerare che – su sette giorni settimanali  – la persona con disabilità per la cura della propria igiene personale e della propria casa ha a disposizione l’aiuto di cui necessita  per circa un’ora e otto minuti e mezzo al giorno!. Sembra quasi banale sottolineare che quantificare un tempo così ridotto per entrambe le esigenze di cura, significa  forse supporre che le persone con disabilità non hanno diritto a igienizzare se stesse tutti i giorni nei dovuti tempi od anche la propria casa. In un’ora al giorno o si fa una cosa o l’altra e , comunque,  in maniera a dir poco sommaria.

Seconda perplessità: il pari diritto con gli altri

Inoltre,  il “pari diritto” con gli altri richiedenti rispetto all’ipotesi di elargire più ore, fa cadere anche il Tribunale nell’errore di non guardare alle esigenze personali di ognuno ma di assoggettarle ai vincoli di bilancio. E lo fa accettando il   “livellamento” –  per tutte le persone con disabilità interessate –  con una quantità “fissa” e determinata  solamente con criteri di risorse scarse a disposizione del Comune.

Terza perplessità: la specifica finalità dell’assistenza diretta

Ancora: secondo la Corte  l’assistenza diretta per sua “specifica finalità –  cura dell’igiene personale e degli ambienti domestici –  non  si può convertire in contributo economico”. Questo è un aspetto criticissimo: l’assistenza diretta è quella fornita dall’Ente con personale imposto proveniente da Cooperative ruotanti “nel sistema”.  Dire che la prestazione non si può convertire in contributo economico ha senso solo rispetto alla richiesta da parte dell’interessato di una formula piuttosto che un’altra. In altre parole, se la persona con disabilità richiede la formula dell’assistenza diretta,  questa certamente prevede modalità di imposizione di personale scelto dall’Ente. Ma dire che la prestazione di assistenza diretta non si può convertire in contributo economico per il suo “specifico scopo” che è “la cura della persona e della propria casa”, cambia di molto le cose e soprattutto quando – come in questo caso – la persona era costretta a richiederla perché gli veniva negata la prestazione essendosi avvalsa del  suo diritto di scelta – che si estende a chiunque di fiducia – attraverso la modalità di assistenza indiretta.

C’è da dire che esiste anche una formula “mista” che prevede sia l’erogazione dell’assistenza diretta per una parte e di assistenza indiretta per un’altra. Ma questa formula è legata sempre e comunque alla scelta della persona.  Non è certo la “finalità” in se e per se che vincola a sopportare imposizioni esterne. E questo ancor di più se l’obbiettivo è la cura della persona e si violano – senza il suo consenso e sotto costrizione dovuta dalla necessità – le sfere della sua privacy fisica e familiare negli spazi della vita privata.

La domanda infatti che nasce è: quando si tratta di farsi mettere le mani addosso e nei propri ambienti domestici, si tratta di un “fine” che non conosce altre soluzioni se non quella che lo debba fare chiunque ed estraneo….? ….Anche il diritto alla privacy collegato al diritto di scelta è un diritto umano (in questo senso cfr in “imporre l’operatore e negare l’assistenza indiretta è reato?”).  Potrebbe (ipotesi) trattarsi di un giro di parole  quello di collegare l’impossibilità di quantificare economicamente l’assistenza diretta ad uno scopo – e non tanto al fatto che quel tipo di modalità se richiesta prevede certi presupposti – proprio per blindare e non intaccare il circuito delle Cooperative e non dar conto di quanto costa effettivamente ogni ora di assistenza fornita da queste realtà?

Domanda legittima, se si pensa che invece l’assistenza indiretta garantisce alla persona con disabilità di scegliere da chi essere assistito, ma anche ai Comuni di avere un notevole risparmio economico. Non solo: con la modalità indiretta si garantisce un regolare contratto di lavoro alla persona che aiuta quella con disabilità. E dunque, dato che  le Cooperative sociali hanno delle tariffe orarie…. che sono ovviamente da moltiplicare per le ore concesse per avere un costo totale……sorge un’ ulteriore domanda: renderle trasparenti e pubbliche forse destruttura?….Perché non riportare – al limite –  quanto costa quel massimo di 8 ore giornaliere concesse con modalità diretta….?……

4.2 Secondo  punto del ricorso non accolto dal Tribunale: l’esclusione dai tavoli di decisione

Nella sua azione legale, la donna con disabilità grave, ha richiesto anche un risarcimento per la sua esclusione da tutti i tavoli della concertazione per i problemi della disabilità. Il Tribunale ha però stabilito  che  non discriminatorio il mancato invito della ricorrente ai tavoli di concertazione perché la Cooperativa  (di riferimento del Comune) risultava cancellata dal registro delle imprese dal 6 aprile 2010. Nel ricordare che alla donna non era stata fornita l’assistenza diretta proprio nell’anno 2010 perché la stessa non l’aveva ritenuta compatibile con le proprie necessità, non avendo elementi per giudicare in modo appropriato questo aspetto, ritengo che sarebbe stato legittimo – ai fini della trasparenza – che la diretta interessata avesse conosciuto prima i motivi per i quali quella Cooperativa era stata cancellata dal registro delle imprese. Questo sia perché destinataria dei suoi potenziali servizi durante la sua esistenza, sia perché molto spesso alcune persone con disabilità lamentano il fatto che sono escluse dai tavoli di concertazione che le riguardano  a causa di  un presunto dominio delle Cooperative che parlano prepotentemente in nome e per conto degli interessati. E se questo fosse confermato,  e forse successa anche in questo caso una estromissione simile………?

5.1 Una Sentenza è un fatto solo privato ….? Ed è anche una eccezione…?

Il Tribunale specifica che il convenuto, cioè il Comune, non è condannato a divulgare la sentenza  sul giornale perché si tratta di un “provvedimento privato con accertamento di discriminazione per cui non è necessaria ne opportuna la divulgazione” (cfr. qui a pag.8: sent. del 22/01/2014, RG. n. 761/2013). Chiariamo un punto: le Sentenze sono dei provvedimenti pubblici che con i dovuti “omissis” (cioè la dovuta copertura dei dati sensibili che riportano alle persone coinvolte) vanno resi disponibili e trasparenti. E infatti anche la sentenza della Corte di Ascoli Piceno è disponibile sul sito del Tribunale e nel corpo della sentenza risultano coperti in nero i dati sensibili. Il ricorso di una persona è sempre un fatto privato, e quel fatto aprirà la via a tante altre persone che a loro volta porteranno il loro caso, Nel caso specifico di Ascoli a maggior ragione: si parla di  discriminazione,  e per la prima volta viene riconosciuta nel settore sociale nell’ambito di una legge che tutela ed esiste ma che viene costantemente ignorata. Ogni discriminazione colpisce la persona in modo diverso ed è un fatto privato….per combatterla occorre parlarne, conoscerla, riconoscerla e chi può apra la via agli altri. Perché chi discrimina conta proprio sull’omertà generale.

Anche qui sorge una domanda: non è che questo richiamo alla natura privata della sentenza, e la conseguente omissione della pubblicazione sul giornale,  non sia un andare incontro a quel Comune per scongiurare  che tanti altri  avrebbero potuto venire a conoscenza del riconoscimento sia della discriminazione che del risarcimento  e di conseguenza fare lo stesso tipo di ricorso…?…..

Un dubbio ancora più forte se pensiamo che nella sentenza di Ascoli (a pag. 6) leggiamo che il Tribunale evidenzia  che “ad una situazione ancor più bisognosa di tutela non si è data una risposta adeguata non adottando dei “ragionevoli accomodamenti” che potevano essere presi in considerazione perlomeno dopo la ratifica della Convenzione ONU sopra richiamata permettendo IN DEROGA ad essa – cioè in via di eccezione  rispetto alla Convenzione – che il contributo fosse dato al marito disoccupato per consentire alla donna di vivere dignitosamente”. Ma nella Convenzione ONU delle persone con disabilità non c’è traccia di divieti a scegliere un proprio familiare convivente per farsi assistere. La Convenzione parla di libera scelta come diritto umano senza costrizione alcuna su con chi vivere, dove vivere e da chi farsi aiutare.

Non è che si vuole far passare per “eccezione” quello che eccezione non è, sempre per “accontentare” l’Ente Pubblico ed evitare che molti altri agiscano legalmente o pretendano a gran voce il loro diritto alla scelta….? Visti i recenti fatti di cronaca e gli scandali malavitosi delle cooperative sociali connesse anche con la politica, il dubbio è legittimo…….

Al termine di questo lungo scritto,  lascio al lettore le proprie conclusioni e riflessioni, credendo che le analisi approfondite a volte aiutano a guardare con un terzo occhio. Sperando che anche di fronte a degli importanti passi avanti non si abbassi mai la guardia o ci si accontenti di leggere ed ascoltare generici proclami. 

 Eleonora Campus

 

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